Il rilascio degli ultimi ostaggi israeliani sopravvissuti dopo due anni di prigionia, l’insperata liberazione di quasi duemila palestinesi trattenuti da tempi immemorabili nelle prigioni-lager di Israele e, soprattutto, la riapertura dei corridoi umanitari per l’afflusso di generi alimentari alla Striscia di Gaza. Sono questi i primi effetti visibili del “piano di pace” di Donald Trump o, meglio, dell’effimera “pax americana” imposta unilateralmente agli storici alleati di Washington nell’area mediorientale.
Sulla seconda fase di quello che nelle intenzioni del “pacificatore” armato dovrebbe condurre alla soluzione del “conflitto” israelo-palestinese (mai conflitto si è caratterizzato per l’assoluta asimmetria delle forze degli attori in campo) è invece notte fonda: nessuno ne ha capito ancora contenuti, modalità, tempi e pratiche e dopo i tributi mainstream riservati a mister Trump e finanche le proteste per il Nobel mancato, inizia a serpeggiare un tanto di sfiducia tra gli analisti e le cancellerie di mezzo mondo.
In verità non c’è pace all’orizzonte in Palestina, anche perché per “fare la pace” sono indispensabili processi dal basso, democraticamente discussi e condivisi all’interno e tra le parti. Invece proprio questi ultimi sono stati del tutto assenti dopo che gli USA si sono assunti l’impegno e l’onere di premere un colpo d’acceleratore sulla “soluzione finale” della questione palestinese, chiedendo al fragile governo Netanyahu di congelare sine die il piano – quello vero – di “soluzione finale” manu militare, cioè di pulizia etnica e “liberazione” dalla presenza di ogni essere vivente in buona parte della Striscia di Gaza.
Un piano per la Palestina senza i palestinesi, le loro forme, pratiche di azione e resistenza ed i propri legittimi rappresentanti politici organizzati che, per questo, non ha alcuna credibilità né sostenibilità a medio e lungo termine. E che il nazi-sionismo, sempre più forte in Israele e tra i governi alleati in occidente non farà altro che sabotare in ogni modo per affermare il “diritto esclusivo all’esistenza” della Grande Israele, dal Mediterraneo al fiume,non certo il Giordano come si vorrebbe lasciar pensare, dato il devastante e crescente impegno bellico di Tel Aviv in Libano, Siria, Yemen ed Iran.
L’esplicita fragilità e contraddittorietà della pax trumpiana impone alle moltitudini mobilitatesi in questi mesi in ogni angolo del pianeta a mantenere inalterati l’attenzione e l’impegno a fianco del popolo palestinese, contro le politiche genocide di Israele e partner. E dobbiamo farlo innanzitutto nel nostro Paese, uno dei più coinvolti nella legittimazione e nel sostegno dei crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati da Netanyahu & C..
Il governo Meloni-Tajani-Crosetto-Nordio ha giocato e gioca un ruolo determinante nei processi di riarmo e belligeranza di Israele: fornisce armi distruttive ed intelligence alle operazioni di morte a Gaza e assicura la totale impunità ai suoi peggiori protagonisti (meno di quindici giorni fa l’Italia è stato l’unico paese europeo che ha consentito al Boeing in cui viaggiava il leader di governo israeliano inseguito da un mandato di cattura internazionale di transitare “senza incidenti” nello spazio aereo nazionale). E non c’è pace senza giustizia e senza che la giustizia stessa sia garantita ed esercitata.
C’è che chi ritiene che Washington abbia “imposto” la falsa pax anche per incrinare e indebolire il fronte internazionale di lotta al genocidio del popolo palestinese, soprattutto all’interno di quei regimi – in Africa e Medio oriente – dove la marea umana che invoca la Free Palestine potrebbe mettere in crisi lo status quo che consente lo strapotere finanziario-economico e militare di transnazionali yankee e petrosovrani.
Anche per questo dobbiamo continuare a riprenderci e vivere collettivamente strade e piazze, licei e università, gli ingressi e i cancelli di quelle banche, aziende o infrastrutture militari che hanno le mani sporche di sangue del popolo palestinese perché hanno continuato a fare affari. fatturati e dividendi sostenendo Tel Aviv e la furia genocida a Gaza. E dobbiamo farlo anche a partire dall’appuntamento di martedì 14 ottobre, giornata in cui c’è chi vorrebbe giocare ad Udine la partita della vergogna, l’incontro di calcio Italia-Israele per le eliminatorie dei Mondiali 2026. Giocare sarebbe un colpo di spugna per cancellare lo sterminio di centinaia e centinaia di giovani calciatori palestinesi sotto il fuoco di bombardieri israeliani e legittimerebbe lo sport come oppio dei popoli e oblio delle coscienze e della memoria storica collettiva.
Blocchiamo tutto, boicottiamo tutto deve continuare ad essere l’impegno di tutti fino a quando le forze armate israeliane non abbandonino Gaza, Gerusalemme Est e West Bank, sia riconosciuto il pieno diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e siano processati e condannati per crimini contro l’umanità tutti coloro che direttamente e indirettamente hanno contribuito al primo genocidio del Terzo millennio.