Campania Popolare – Regionali, il PRC: “La campagna elettorale per noi non è stata un esercizio cosmetico né un gesto simbolico”

Questa campagna elettorale, per noi di Campania Popolare, non è mai stata un esercizio cosmetico né un gesto simbolico: è stata un tentativo concreto di riorganizzare il dissenso, ricostruire un collettivo radicato e rimettere al centro del dibattito politico una lettura di classe delle condizioni materiali che determinano la vita delle persone.
Certo, non siamo soddisfatti del risultato, ma ce ne importa il giusto. Quando diciamo che le elezioni sono un momento da attraversare, lo facciamo perché collochiamo questo passaggio dentro una lettura più ampia del processo politico: una lettura che può sembrare incomprensibile a chi considera il voto un fine in sé e non uno dei tanti strumenti della partecipazione e del conflitto.
Per cogliere davvero il senso del nostro percorso, occorrerebbe andare oltre la conta dei voti — cosa che agli analisti liberali semplicemente non riesce.
In questi giorni tante analisi sono circolate su chi ha vinto e chi ha perso, più o meno superficiali, ma una mi sembra rappresentativa di tutto quello che da sempre contestiamo alla sinistra liberale, pubblicata sulle pagine di orticolab.it con il titolo “Regionali in Campania, la sinistra e la cultura del feedback”.
Questa analisi dice molto più di quanto vorrebbe, e ci disvela la loro piena adesione al linguaggio e alle pratiche del capitale, ad un modo di pensare la politica come amministrazione tecnica, alla società come platea di consumatori da targettizzare, il dissenso come errore da correggere. Un impianto tipicamente elitario e tecnocratico, e proprio per questo perfettamente funzionale all’ordine esistente. O, come direbbe qualcuno, resiliente.
Secondo questa impostazione, la politica si ridurrebbe ad una tecnica di ottimizzazione del consenso: si formula un’offerta, si monitora la risposta, si corregge il prodotto, si crea il bisogno. Gli astenuti diventano “feedback negativi”, i cittadini si trasformano in clienti. È l’applicazione pedissequa delle regole del marketing aziendale alla vita democratica.
Ma se il conflitto scompare e la democrazia diventa un sondaggio permanente, si perde il senso stesso della rappresentanza. Una griglia di lettura strutturalmente cieca alla realtà materiale delle persone — anzi, costruita così apposta per non vederla. Un impostazione in cui il voto non è più esercizio di sovranità ma una sorta di cerimonia formale, una specie di religione civile che pretende obbedienza rituale, e che non si interroga sulle condizioni materiali che lo rendono possibile o impossibile.

Il paradigma offerto dall’analisi, infatti, poggia su tre grandi rimozioni.
1. Rimuove le condizioni della produzione politica. Quando si sostiene che “per fare politica seriamente” servano “studi sull’elettorato”, “analisi dettagliate del territorio”, “strategie di comunicazione” e “competenze professionali” nel leggere i dati, si finge che tali strumenti siano disponibili per chiunque. Non è così. Chi dispone di risorse economiche, reti istituzionali consolidate e strutture operative gioca un’altra partita rispetto a chi conquista tempo per l’attività politica nello spazio rubato allo sfruttamento e alla precarietà.

Il messaggio non dichiarato è semplice: la politica è possibile solo per chi può permettersela. È un classismo mascherato da neutralità metodologica, un modo elegante per trasformare in merito ciò che nasce da diseguaglianze strutturali. I nostri modelli non sono certo quelli oligarchici e censitari degli Stati Uniti o del Regno Unito. Anzi: per noi rappresentano la prova più evidente di come la “professionalizzazione” liberale della politica -che trasforma i cittadini in utenti- rimuova il conflitto e finisca sempre per produrre rabbia sociale contro il sistema stesso. Noi facciamo l’opposto: non compriamo consenso con la pubblicità né deleghiamo la politica ai consulenti. Investiamo nelle nostre comunità, nelle competenze dei nostri militanti, nelle reti vive dei territori. E se dobbiamo mettere in campo tempo, energie o risorse, lo facciamo per emancipare i nostri, non per alimentare apparati che riproducono diseguaglianza.

2. Rimuove le condizioni della partecipazione. Dopo aver cancellato dal quadro le asimmetrie che rendono la competizione politica ineguale, lo stesso paradigma tratta gli elettori come se partissero tutti dallo stesso punto. È il riflesso tipico del pensiero liberale: immaginare un “elettore medio” che nella realtà non esiste, esattamente come non esiste il consumatore ideale della teoria economica ortodossa. Una finzione utile a neutralizzare le differenze materiali che strutturano la società. In questo schema, l’astensione è un peccato civico, una mancanza di disciplina.

Ma l’astensionismo non è un vizio morale: è il riflesso politico di una frattura di classe. Chi non vota non è un consumatore insoddisfatto: è una persona a cui è stato sottratto il diritto materiale a partecipare. Precarietà lavorativa, orari insostenibili, emigrazione forzata, solitudini sociali, servizi pubblici evaporati: è la miseria quotidiana che erode lo spazio stesso dell’azione politica. La democrazia non è un fatto astratto né un appello morale: è partecipazione reale, e la partecipazione vive di infrastrutture — trasporti, tempo libero dallo sfruttamento, spazi pubblici, servizi accessibili. Senza queste condizioni materiali, parlare di “partecipazione” o democrazia diventa un artificio retorico: non descrive la realtà, ma scarica la responsabilità su chi ne è escluso.

Si continuano poi a proporre soluzioni “tecniche” all’astensionismo: semplificazioni procedurali, voto digitale, sportelli online, processi di ascolto, come se un anziano delle aree interne fosse improvvisamente rimesso in condizione di votare grazie a un QR code. È l’illusione che la distanza politica possa colmarsi con un aggiornamento del software. In realtà, è solo l’ennesima trasfigurazione tecnocratica di un problema politico: sostituire la partecipazione con l’accessibilità informatica. È la convinzione liberale che la crisi della democrazia si risolva con una nuova interfaccia, per noi è necessaria una nuova idea di società.

3. Rimuove la natura del potere. Lo si vede nella retorica edificante sull’associazionismo come luogo “puro” della democrazia. Eppure, per come lo conosciamo nella concretezza della realtà, l’associazionismo costituisce spesso una vera e propria infrastruttura del potere: filtra il conflitto, lo depoliticizza, lo traduce nel linguaggio inoffensivo del “progetto” e della “rendicontazione”. Non libera , incanala. Non rappresenta, media. Non difende interessi generali, ma riproduce un corporativismo rispettabile, digeribile e, soprattutto, finanziabile. Un civismo associazionistico docile e funzionale, che non mette in discussione nulla, che non apre conflitti e che si limita a gestire residui di partecipazione entro schemi perfettamente compatibili con l’ordine esistente. Un sistema che non costruisce autonomia collettiva, ma una frammentazione competitiva di singoli richiedenti, legati al potere da un vero e proprio vincolo di dipendenza materiale.

Identico meccanismo si ritrova nel racconto sulle clientele, distinte in “patologiche” e “virtuose” come se il problema fosse solo penale. Ma quando i territori dipendono strutturalmente da chi gestisce le risorse, quando la politica si trasforma in pura rendita di posizione, allora non siamo nemmeno più di fronte a una deviazione: siamo di fronte al sistema stesso, a norma di legge, eppure profondamente ineguale e sbagliato.
La rappresentazione offerta mette sullo stesso piano chi controlla risorse, apparati e reti clientelari, e chi prova a costruire politica dal basso senza strumenti e senza potere, attraverso l’emancipazione collettiva ed individuale. È un’equiparazione comoda: permette di dire che “sono tutti uguali” e cancella la differenza tra chi distribuisce favori e chi organizza conflitto.

In conclusione una lettura che assolve il sistema e colpevolizza chi lo sfida.
Questa ossessione per il metodo, il feedback, il marketing, rivela una cosa semplice: la paura del conflitto. Perché se la politica si riduce ad un algoritmo, ad una formula elettorale, allora non c’è più spazio per una scelta che divida, per un interesse di parte da difendere, per una linea di frattura da aprire.
Quella descritta è una politica che, per piacere a tutti, non può rappresentare nessuno, se non chi già detiene risorse e voce. Una politica da cui non può arrivare nessun cambiamento reale, perché si autolimita a rappresentare e garantire solo lo status quo. L’ideologia del ‘feedback’ è la tecnica perfetta per amministrare il consenso senza mai mettere in discussione, e nemmeno mai nominare, i rapporti di potere che lo producono.
Questo impianto — marketing politico, associazionismo mediatore, clientele “normalizzate” — non è un errore di analisi: è l’espressione organica di una sinistra liberale che ha interiorizzato la logica del mercato e che per questo non può appartenerci.
Noi, al contrario, stiamo portando avanti un lavoro controculturale che non cerca di piacere al potere, ma di cambiarlo. E’ un po’ più complicato della conta dei voti e necessita di vera partecipazione. Non vogliamo delegare la politica ai tecnici del marketing, né all’uomo forte della provvidenza: la tessiamo noi, insieme, ogni giorno, nei luoghi reali della vita delle persone. È un lavoro che non prevede effetti speciali né scorciatoie elettoralistiche: è lento, faticoso, ostinato, soprattutto quando tutto il sistema spinge nella direzione contraria. Ma è così che siamo convinti si costruisca ciò che dura: competenze collettive, legami solidi, capacità di organizzarsi e riconoscersi. Non offriamo un prodotto da consumare il giorno del voto, apriamo processi. Non inseguiamo consenso volatile: costruiamo radicamento. Ed è esattamente questa differenza — materiale, politica, culturale — che ci rende irriducibili a qualunque schema liberale.
Non ci interessa amministrare l’esistente: ci interessa trasformare i rapporti di forza reali per organizzare il futuro. Che senso ha seguire la corrente se poi non ti porta dove vuoi andare?

Per Campania Popolare

Michela Arricale

Arturo Bonito