Socialismo o barbarie: “l’Età Selvaggia” come fase terminale del ciclo neoliberista


Di fronte ai dati impietosi del 59° Rapporto Censis, la narrazione rassicurante della “resilienza” italiana si sgretola definitivamente. Quella che i sociologi definiscono “età selvaggia” non è una calamità naturale, ma il risultato scientifico di trent’anni di politiche neoliberiste bipartisan che hanno smantellato la società, umiliato il lavoro e spalancato le porte ai nuovi predatori.
Se c’è un merito nel 59° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, presentato nel dicembre 2025, è quello di aver finalmente gettato la maschera lessicale. Non si parla più di “malessere” o di “limbo”, ma di un ingresso brutale nell'”età selvaggia”, un tempo dominato dalla logica del “ferro e fuoco” e dalla dinamica biologica di “predatori e prede”. Tuttavia, ciò che il Censis descrive con categorie antropologiche, va nominato con il suo vero nome politico: siamo di fronte al fallimento strutturale e definitivo del ciclo neoliberista. La barbarie che oggi bussa alle porte, fatta di disuguaglianze oscene e di violenza sociale, è il prodotto diretto di un sistema di potere che, governato alternativamente da centrodestra e centrosinistra, ha metodicamente distrutto le basi della convivenza civile in nome del mercato.  

La violenza dei numeri: la grande rapina salariale
Il cuore di questo fallimento non è un’opinione, ma è scolpito nella statistica della ricchezza e dei salari. Il rapporto certifica una riduzione violenta del potere d’acquisto e una distruzione sistematica del risparmio popolare che non ha eguali nella storia repubblicana recente. Tra il 2011 e il 2025, la ricchezza reale delle famiglie italiane è crollata complessivamente dell’8,5%.  
Ma il dato medio, come sempre, è l’oppio dei popoli che nasconde la lotta di classe in atto. Mentre la narrazione ufficiale ci parlava di “sacrifici necessari per l’Europa”, si consumava una gigantesca operazione di trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto. Il 50% delle famiglie più povere ha visto il proprio patrimonio polverizzarsi, subendo un crollo del 23,2%. Ancora più drammatica è la sorte di quel ceto medio che doveva essere il pilastro della democrazia liberale: le famiglie tra il sesto e l’ottavo decile hanno perso tra il 25% e il 35% delle loro risorse.  
Al contrario, in questa “età selvaggia” dove la legge è quella del più forte, i predatori hanno banchettato. Il top 10% della popolazione non solo non ha pagato dazio alla crisi, ma ha visto la propria ricchezza crescere del 5,9%. Oggi, l’élite assoluta (il 10% delle famiglie) detiene il 60% della ricchezza nazionale. Questo divario abissale tra l’accumulo sfacciato di patrimoni e la proletarizzazione di massa certifica il fallimento non solo economico, ma morale, di un sistema falsamente democratico che ha tradito la promessa costituzionale di equità.  

Il lavoro come merce svalutata
La retorica governativa sull’aumento dell’occupazione si scontra con la realtà di un mercato del lavoro “senilizzato” e precario, che ha smesso di essere strumento di emancipazione sociale per diventare pura sopravvivenza. L’aumento degli occupati è una statistica drogata dall’invecchiamento: su 833.000 nuovi occupati nel biennio 2023-2024, ben l’84,5% sono over 50, costretti a rimanere al lavoro da riforme pensionistiche punitive e dalla necessità di integrare redditi familiari erosi.  
Per i giovani, il sistema riserva solo l’esclusione o lo sfruttamento. I dati sono una sentenza: nei primi dieci mesi del 2025, l’occupazione giovanile (under 35) è crollata di 109.000 unità, mentre aumentavano gli inattivi. Siamo agli ultimi posti in Europa non per fatalità, ma per scelta politica: la scelta di competere sul costo del lavoro anziché sulla qualità e l’innovazione, permettendo un disaccoppiamento tra produttività e salari degno di un’economia neocoloniale. Nel settore automotive, a fronte di una produttività aumentata del 48,8% grazie all’automazione, i salari reali sono cresciuti di un misero 9,3% in quasi trent’anni. Il plusvalore generato dalla tecnologia è stato interamente sequestrato dal capitale, lasciando ai lavoratori le briciole.  

La fine della mediazione e il crollo del welfare
In questo scenario, lo spazio per la mediazione socialdemocratica o per il riformismo pallido non esiste più. Il sistema non ha margini per “addolcire” la pillola, perché la sua sopravvivenza dipende ormai dalla predazione continua delle risorse pubbliche e private. Lo dimostra lo stato comatoso del welfare state. Il 78,5% degli italiani, quasi otto su dieci, vive nel terrore di non poter contare sulla sanità pubblica in caso di non autosufficienza.  
Questa sfiducia di massa è la prova che il patto sociale è rotto. La privatizzazione strisciante della sanità, perseguita da ogni colore politico negli ultimi decenni, ci ha condotto a una barbarie in cui il diritto alla salute è censitario. Quando un cittadino su tre guarda con favore ai regimi autocratici, considerandoli più efficaci delle democrazie liberali , non sta esprimendo un’innata vocazione alla dittatura, ma un grido disperato contro una democrazia procedurale che non garantisce più i bisogni primari. La fascinazione per l'”uomo forte” è il sintomo morboso di una politica che ha abdicato al suo ruolo di protezione sociale, lasciando i cittadini soli nella “giungla” del mercato.  

Oltre il bipolarismo: la necessità di un’alternativa radicale
L’analisi del Censis ci pone di fronte a un bivio ineludibile. La politica di “ferro e fuoco” descritta nel rapporto non si combatte con la manutenzione dell’esistente. Il bipolarismo italiano, che ha visto alternarsi alla guida del Paese schieramenti diversi nella forma ma identici nella sostanza economica liberista, è il colpevole di questo sfacelo, non la soluzione.
L’uscita da questa deriva richiede una forza di rottura reale. Non si tratta più di scegliere la sfumatura di gestione dell’austerità, ma di rovesciare il tavolo. Se l’accumulo di ricchezza è feudale, la risposta deve essere redistributiva in modo radicale. Se il lavoro è povero e precario, la risposta deve essere il ripristino della dignità salariale e dei diritti contro la logica del profitto.

La formula “Socialismo o barbarie”, coniata da Rosa Luxemburg un secolo fa, non è mai stata così attuale. L’alternativa che abbiamo davanti è brutale nella sua semplicità: o si costruisce un nuovo modello sociale che rimetta al centro l’uomo e i suoi bisogni, superando le logiche di mercato che hanno generato l'”età selvaggia”, oppure siamo condannati a vivere come prede in un mondo di predatori, dove la politica è ridotta ad amministrazione della violenza economica e il futuro è un lusso per pochi. La sopravvivenza materiale di decine di milioni di persone dipende dalla capacità di costruire questa alternativa, ora, prima che la barbarie diventi l’unica legge del Paese.