Il Consiglio dei ministri ha appena varato il disegno di legge che ha deliberato la “riforma” dei porti e la nascita di “Porti d’Italia Spa”. L’obiettivo dichiarato è una regia unitaria per gli investimenti strategici, procedure più rapide per piani regolatori e dragaggi, e un rilancio competitivo del sistema nazionale.
Ma vista dalla Sicilia, questa operazione rischia di tradursi in un nuovo centralismo decisionale, in gravi conseguenze ambientali e in una spinta inarrestabile verso l’asservimento dei territori agli interessi militari e ad una logistica finalizzata al solo transito delle merci, fenomeni che nell’Isola hanno già precedenti e infrastrutture pronte all’uso.
La “riforma” affida alla nuova Società Per Azioni, per ora interamente statale (sebbene tutte le privatizzazioni siano iniziate creando delle Spa) le leve dei grandi investimenti, della manutenzione straordinaria e della promozione internazionale, relegando le Autorità di sistema portuale a funzioni ordinarie. In sostanza, Roma decide e i territori si adeguano con la prospettiva della privatizzazione di un asset strategico come i porti.
Dalla lettera e dallo spirito del provvedimento emerge chiaramente un disegno centralista che riporta nelle mani del Governo, attraverso MEF e MIT, la pianificazione e la gestione delle infrastrutture portuali, riclassificando gli interventi e includendo nei “lavori straordinari” perfino i dragaggi di bonifica: un modo per esautorare il livello locale proprio sui dossier più delicati e impattanti.
In Sicilia, dove gli scali hanno avviato percorsi di rilancio (Palermo, Trapani, Gela, Augusta, Catania, ecc) la preoccupazione è duplice: che la nuova regia favorisca le piattaforme portuali più ricche del Nord e che i processi si trasformino in un modello standardizzato, imposto dall’alto, incapace di cogliere le differenze tra contesti e di rispettare vincoli sociali e ambientali.
In questo scenario, la “riforma” promette di accelerare piani speculativi e dragaggi senza però fornire garanzie ambientali. Semplificare non significa automaticamente fare meglio. L’”alleggerimento” delle procedure sui dragaggi, comporterà non pochi rischi: i sedimenti devono essere caratterizzati chimicamente ed eco‑tossicologicamente, classificati e gestiti con tracciabilità. Superficialità o inadempienze in questo ambito avrebbero effetti duraturi su habitat, pesca e salute. Accelerare le procedure senza potenziare controlli e monitoraggi prima, durante e dopo i dragaggi significa abbassare gli standard in uno dei mari più antropizzati d’Italia.
I segnali di allarme non mancano: ARPA Sicilia nel 2024 ha rilevato disturbi alle praterie di Posidonia in area Augusta e nuove specie aliene nei porti di Catania e Siracusa, indicatori di ecosistemi sotto pressione. Goletta Verde ha denunciato che il 44% dei punti costieri campionati è oltre i limiti di legge, soprattutto alle foci di fiumi e torrenti, segno di una depurazione inefficiente. In questo contesto, sdoganare la retorica “draghiamo in fretta per essere competitivi” è un gioco pericoloso.
La Sicilia, invece di continuare a essere terra di incontro e confronto al centro del Mediterraneo, rischia di trasformarsi nella “portaerei” militare della prossima guerra globale. Già oggi l’Isola è un hub operativo NATO e USA: basta ricordare la base di Sigonella, i progetti su Trapani‑Birgi e le infrastrutture militari del porto di Augusta. La militarizzazione è una realtà, e la prospettiva è la costruzione di nuove infrastrutture a uso duale, civile e militare, non certo pensate esclusivamente per la popolazione.
La “riforma” portuale rischia di amplificare questa deriva: se Porti d’Italia Spa orienta grandi opere su scali siciliani senza clausole di non‑militarizzazione e senza trasparenza sugli usi duali, la nuova “efficienza” può trasformare banchine, fondali e piazzali in retrovie logistiche militari pronte all’impiego. Non è fantascienza: tra i decolli dei P‑8A da Sigonella e le missioni di sorveglianza nel Mediterraneo, le cronache del 2025 confermano il ruolo dell’Isola come snodo strategico nel sistema NATO‑USA, come documentato meticolosamente da Antonio Mazzeo.
Prima che la “riforma” venga approvata dal Parlamento, occorre mobilitarsi e pretendere che il parere dei territori sia vincolante e che ogni nuova opera sia coerente con i piani regionali e comunali. È indispensabile la trasparenza sugli usi duali e, considerata la fragilità delle infrastrutture e dei servizi portuali, spostare gli investimenti verso l’ultimo miglio: ferrovie e strade di accesso efficienti, connessioni terrestri funzionali, retroporti e intermodalità capaci di integrare i porti nel sistema dei trasporti di merci (che dovrebbero provenire dal nostro territorio) e persone.
I porti e le infrastrutture, infatti, devono servire il territorio e i cittadini, non il contrario: la qualità della vita e l’ambiente non possono essere sacrificati sull’altare del profitto privato e degli interessi strategici e militari statunitensi. La Sicilia non può essere trattata come una colonia da sfruttare, sebbene vi sia la complicità di una classe dominante svenduta. La “riforma” dei sistemi portuali promette velocità e unità di comando, ma la Sicilia rischia di diventare ostaggio di un centralismo che scarica costi ambientali e interessi militari sulle nostre comunità già vulnerabili. La competitività non si misura in metri di fondale, ma in governance trasparente, qualità delle connessioni e diritti delle persone e degli ecosistemi, per valorizzare un territorio unico e irripetibile che con questa “riforma” rischierebbe di essere compromesso per sempre.