Ora sono a rischio le prerogative dell’homo sapiens. Per sgretolare il blocco globale è indispensabile l’azione di comunità e movimenti popolari. Essi devono non solo contrastare i poteri dominanti ma anche costruire processi di rianimazione sociale in grado di riaggregare le persone, rigenerando la fiducia nella democrazia vissuta come conflitto nonviolento per la giustizia, cittadinanza partecipativa e coltivazione della pace mediante mezzi di pace.
Man mano che fanno esperienza di come dare risposte alle negazioni dei diritti di singoli e popoli, questi soggetti politici e sociali diventano anche soggetti culturali creativi.[…]
Allora si potranno riconoscere una strada e un orizzonte per la speranza umana. La coscienza corale diverrà passione condivisa, la passione condivisa azione, l’azione processo di liberazione.
Nel presentare, la rivista mensile «Altreconomia» (https://altreconomia.it), dopo «Gli asini», già in queste pagine, comincio dalle parole che chiudono l’ultimo fascicolo, il n° 286 di novembre 2025, ossia da una sorta di sistematico editoriale di chiusura del filosofo Roberto Mancini. Il taglio filosofico-morale di questi contributi è sempre strettamente legato all’attualità, guardata tuttavia dal punto di vista della soggettività dei nostri giorni, adulterata e aggredita dagli eventi politici e dalle strutture economiche che condizionano vite e sensibilità. Il rischio dell’addio all’homo sapiens, sostiene Mancini, è causato dal dominio del potere bellico, dalla macchina criminale dell’economia, dal cinismo politico, dal prevalere delle logiche meccaniche e oggi dalla delega di tutto all’intelligenza artificiale: alcuni fra gli elementi oggettivi che comportano lo svuotamento psichico di massa, il deteriorarsi dell’attenzione, le interazioni nevrotiche con i dispositivi tecnologici. A contrastare questa deriva e questa grave crisi della soggettività, Mancini indica la strada che ha definito, in maniera suggestiva, «processi di rianimazione sociale».
Parto dall’apertura alla speranza dell’ultima pagina, ma la rivista è tutt’altro che rassicurante con lettori e lettrici, sui quali carica, un mese dopo l’altro, consistenti quote di preoccupazione e di responsabilità politica e morale, ma fornendo anche messaggi di speranza, di utopia concreta, per usare un’espressione del filosofo Ernst Bloch.
Ormai affermata nel panorama nazionale, ma pur sempre (e purtroppo) di nicchia, questa coraggiosa rivista mensile pubblicata da una cooperativa editoriale sociale con base a Milano, diretta dal giornalista Duccio Facchini, scandisce le sue pagine su uno schema rigoroso e al tempo stesso mosso e dinamico: un ampio tema iniziale (inchiesta “di copertina”), suddiviso in diversi articoli, e poi un «primo tempo» dedicato a inchieste e reportage di denuncia; un «secondo tempo» centrato, sempre col metodo dell’inchiesta, su azioni “dal basso” compiute da organizzazioni piccole e medie, talvolta perfino istituzionali, che tendono a ricucire il tessuto strappato delle relazioni sociali (è la parte della rivista più aperta alla speranza attiva), un «terzo tempo», più breve, dedicato alla più varia cultura. Tutto ciò si mescola in maniera ben armonizzata, e tutt’altro che rigida. Da notare che le inchieste e i reportages toccano allo stesso modo l’Italia, l’Europa, i Paesi non europei.
Ma non diremmo tutto se non aggiungessimo una componente che attraversa l’insieme della rivista, ossia un consistente numero di “rubriche” – talvolta veri e proprio editoriali – affidate a specialisti, spesso ben noti, delle varie materie predilette dalla rivista nelle sue varie partizioni: sul versante “negativo”, finanza internazionale, energia, sfruttamento, disastri climatici e ambientali, attività delle multinazionali di ogni genere, politiche antimigratorie e securitarie, forme di colonialismo e altre durezze del nostro mondo; su quello “positivo”, la resistenza e le iniziative risocializzanti; e una gran quantità di informazioni e condivisioni di esperienze, soprattutto proprio nelle rubriche. E qui non mancano temi in genere poco trattati, fra i quali mi piace segnalare quelli dedicate alla salute, al cibo (il circuito delle sementi, ad esempio) e al consumo di suolo, il grande sconosciuto anche nelle lotte ambientaliste.
Anche in questo caso voglio procedere, per scendere sul concreto, ad una sintesi dell’ultimo fascicolo. Si tratta di un numero molto compatto. L’inchiesta di copertina, la più ampia, riguarda per questo mese gli effetti delle politiche migratorie ormai consolidate nel nostro Paese: in particolare l’abbandono dei migranti, voluto e realizzato attraverso le norme e le procedure in atto, un gioco perverso di cinismo e inefficienza: 53.000 persone sono uscite, in vario modo (espulse o “fuggite”), dai centri nei quali erano stati accolti. Realizzata in tre articoli, l’inchiesta è corredata di grafici e tabelle, e ricostruisce dunque un tema decisivo della nostra politica: che è anche politica demografica, cieca sui problemi reali dell’Italia e sulla utilità, a pensare cinicamente, dell’apporto degli immigrati. Una stupidità che fa il paio con la cappa ideologica e col “cattivismo” esplicito della normativa – come ben sappiamo. Non sorprende certo sapere, fra l’altro, che una consistente quota di rifugiati affrontino il rischio di povertà (quattro volte quello degli italiani).
Il “primo tempo” presenta quattro inchieste: dalla crisi delle risorse idriche in Iraq che comporta l’abbandono delle aree di coltura di molti contadini, allo sfruttamento dei lavoratori agricoli nelle Langhe, dove la quota di lavoro nero è impressionante: ormai, dice un ricercatore, Marco Omizzolo, «lo sfruttamento nel nostro Paese è pianificato e sistematizzato. Spesso non è più mediato dai caporali, ma è il ‘sistema impresa’ che sfrutta direttamente, in modo manageriale, sofisticato»; e, per rimanere nell’area, la crisi del “modello Saluzzo”, riguardo all’accoglienza dei braccianti (anch’essi molto spesso migrati e stagionali) nei siti previsti per loro. Un bel reportage riguarda poi il fiume Tagliamento, «l’ultimo fiume selvaggio d’Europa», che ancora scorre libero e allo stato naturale per gran parte del suo decorso, e – va da sé – minacciato da grandi opere. Non manca, in chiusura di questa sezione, un allarme per la crisi della finanza sostenibile, che vari indicatori suggeriscono.
Il «secondo tempo» offre al lettore le iniziative in atto per superare gli ostacoli nell’accesso all’aborto, la lotta per l’emancipazione nel quartiere palermitano dello Zen, gli sforzi fra giovani protestanti e cattolici per superare vecchi conflitti a Belfast; infine l’organizzazione di “reti locali” per il cibo nel Regno Unito: esperienze di solidarietà e autorganizzazione mutualistica “dal basso”, che coinvolgono anche momenti istituzionali (la bella inchiesta è centrata significativamente su due grandi città, Liverpool e Bristol). Infine un servizio fa luce su un’esperienza di resistenza culturale palestinese, quella del ricamo tradizionale il tatreez – un pezzo di identità – promosso da un collettivo animato da due sorelle italo-palestinesi a Milano. E la Palestina è ancora presente nel «terzo tempo», centrato sull’intervista a una giovane pittrice che aveva lasciato Gaza (che ricorre molte volte in questo fascicolo), ignara della nuova catastrofe imminente, il 6 ottobre 2023, per una borsa di studio da fruire a Londra. La sua esperienza artistica è diventata anche una via per onorare la sua terra e denunciare il genocidio culturale. Conclude il quadro la ricostruzione di un ricercatore lucano Gianni Palumbo, che riscopre il naufragio al largo di Gibilterra del piroscafo Utopia, causa della morte di quasi seicento persone: una storia di emigrazione del 17 marzo 1891, evidentemente attualizzata dai continui eventi paralleli dei nostri giorni.
Ma una valutazione reale dell’importanza della rivista può essere resa solo dalla lettura sistematica: una sorta di dovere civico e politico. E qui concludo ribadendo il rammarico per dover trascurare le interessantissime brevi rubriche, il cuore pulsante della rivista.