Per una diversa idea di sicurezza

Tratto da Osservatorio Repressione – di Vincenzo Scalia*

L’insicurezza esiste ma le politiche sicuritarie della destra, fatte proprie anche dalla sinistra, non fanno che alimentarla. L’alternativa è il capovolgimento della cultura imperante, che guarda ai cittadini come individui isolati e impauriti, e l’adozione di interventi diretti a modificare le città e i rapporti sociali, definiti insieme ai loro destinatari. Le proposte e le esperienze non mancano, ma occorrono coraggio e lungimiranza

Qualche decennio addietro, il criminologo marxista statunitense Richard Quinney, affermava che la criminalità pagaNon si riferiva ai possibili vantaggi derivanti dall’intraprendere una carriera criminale. Quinney guardava ai vantaggi che la questione criminale forniva alla società. Un decimo dell’apparato di Stato è costituito da addetti alla sfera giudiziario-penale. A questi vanno sommati gli avvocati, gli imprenditori che costruiscono gli istituti penitenziari e tutto l’indotto del business penitenziario, come lo avrebbe definito più tardi Nils Christie. Allargando il perimetro, il numero di psicologi, psichiatri, esperti a vario titolo, criminologi clinici, accademici, giornalisti, scrittori, membri dell’associazionismo e del volontariato che traggono rendite di posizione dalla criminalità, finisce per formare una schiera consistente. Senza tralasciare la sfera mediatica dell’intrattenimento. A questa schiera, Quinney, non dimenticava di aggiungere i politici, che attorno al binomio di legge e ordine costruiscono le loro carriere politiche.
La questione della sicurezza, così come è stata sviluppata in Italia nell’ultimo trentennio, conferma l’attendibilità dell’assunto formulato da Richard Quinney. Cominciò la Lega, che deve buona parte delle sue fortune all’avere intercettato le rivendicazioni securitarie dei comitati civici sorti, più o meno spontaneamente, nell’ex triangolo industriale alla fine degli anni ottanta. Una ricostruzione simile può essere svolta per i Cinque Stelle, che hanno fatto della parola d’ordine onestà, da declinare in senso giustizialista, il loro cavallo di battaglia. FdI, ovviamente, raccoglie il testimone delle crociate per l’ordine pubblico di cui è sempre stata portatrice la forza politica di cui costituisce la filiazione diretta. Non a caso, l’attuale compagine governativa, fa della sicurezza il proprio collante e il proprio marchio di fabbrica per rinsaldare il consenso dell’elettorato.
Che la sicurezza rappresenti la cifra della destra, non stupisce. Viceversa, sorprende l’ossessione securitaria che ha recentemente conquistato l’opposizione, con la segretaria del PD che, da ultimo, convoca in tutta fretta una conferenza nazionale degli amministratori locali per parlare dell’insicurezza delle città. Come se rispondesse all’appello lanciato dalle colonne dei giornali dall’ex sindaco di Roma, e al suo proclama per cui la libertà non esiste senza sicurezza. Lo spettacolo che il cosiddetto centrosinistra mette in scena appare goffo e patetico, nella misura in cui, oltre a tentare di occupare uno spazio già saldamente presidiato dagli altri, denota un preoccupante vuoto progettuale, oltre che una mancanza di consapevolezza.
Affermare che il centrosinistra non ha mai applicato politiche securitarie, costituisce un punto di partenza errato, sia sul piano della riflessione teorica che sotto il profilo delle politiche pubbliche. Le sindacature di Chiamparino a Torino, di Veltroni a Roma, quella di Cofferati a Bologna con la famigerata battaglia sui lavavetri, lo zelo con cui i sindaci di centrosinistra sono corsi ad applicare le zone rosse, sono lì a dimostrarlo. Come lo suffragano, a livello nazionale, il pacchetto sicurezza varato dall’allora Guardasigilli Fassino, i GOM istituiti dal suo predecessore Diliberto, la predisposizione della macchina repressiva che a Genova, in occasione del G8, avrebbe sortito risultati tragici (e che, appunto, venne consegnata a Berlusconi dal precedente Governo di centro-sinistra presieduto da Giuliano Amato). Iniziative tutte accomunate dal maldestro tentativo di dimostrare all’elettorato di essere sufficientemente duri contro il crimine come la destra, suffragate da ricerche sociologiche approssimate, che enfatizzano i dati grezzi. E i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti, come il Governo che ci troviamo in carica e i sui decreti anti-rave, Caivano e sicurezza.
Dove sbaglia la sinistra? Sicuramente, nell’accettare lo scontro aperto in un campo in cui non ha stabilito le regole. Soprattutto, nel rifiuto di elaborare una riflessione propria sulle tematiche della sicurezza, da tradurre in politiche alternative a quelle della destra. Si potrebbe, per esempio, cominciare dall’approfondire il concetto stesso di sicurezza, tutt’altro che passibile di una definizione univoca. Da un lato è vero che in italiano l’univocità è la conseguenza della sinonimia tra quello che gli inglesi distinguono tra safety, in senso sociale, e security, che richiama alla protezione fisica. Dall’altro lato, questa distinzione, non viene svolta per via di una pigrizia intellettuale che risente dei mutati scenari socio-politici successivi alla caduta del Muro di Berlino. L’imporsi del pensiero unico neoliberista, ha comportato il prevalere del significato del termine nel senso della security, oppure, se preferiamo, del cosiddetto diritto alla sicurezza.
Questa impostazione, si regge sul presupposto che la società sia composta da individualità isolate, che condividono la razionalità dell’homo oeconomicusa cui va garantito un quantum di incolumità necessario a operare sull’arena del mercato per portare a termine interazioni e scambi funzionali alla produzione e, soprattutto nella fase odierna, al consumo. Si disegna così uno spazio uniforme, omogeneo, all’interno del quale le diversità e le difformità vengono inquadrate come pericoli, potenziali ed effettivi, da neutralizzare con interventi che siano il più possibile rigorosi, e che prevedano un dispiegamento massimo delle risorse giudiziario-penali. Il limite di questa impostazione è rappresentato dal rifiuto di accettare l’esistenza di una pluralità di interessi, di valori, progettualità, identità, stili di vita al di fuori di quelle offerte del mercato. Ne consegue, paradossalmente, una contrazione delle singolarità, colonizzate dalla paura, e costrette ad accontentarsi della nicchia del mercato, e ad affidare a un potere sempre più invadente e autoritario le proprie esistenze. Come nota Tamar Pitch ne Il malinteso della vittima, mettere nelle mani di un potere terzo la tutela delle proprie aspettative, produce una condizione di subalternità e gonfia a dismisura le prerogative repressive dello Stato.
Il diritto alla sicurezza avanza a spese di quella che Alessandro Baratta definiva come la sicurezza dei diritti. Un approccio analitico antitetico a quello dominante, in quanto parte dal presupposto che le individualità esistono sempre all’interno di contesti sociali specifici, all’interno dei quali, la fruizione dei diritti civili, politici e sociali, oltre a ridurre le preoccupazioni quotidiane, costruisce una sfera pubblica all’interno della quale agiscono individualità e soggetti collettivi inclusi. Un tessuto sociale economicamente compatto e socialmente coeso attorno a legami plurali, non regolamentato dal mercato, riduce sensibilmente i rischi per le incolumità dei singoli.
Il problema da porsi, riguarda proprio l’assottigliarsi della sicurezza dei diritti. Il passaggio dal fordismo al post-fordismo, col deperimento dei grandi aggregati produttivi, ha finito per produrre disoccupazione di massa, precarietà occupazionale, segmentazioni del tessuto sociale. Le esistenze, per dirle con Zygmunt Bauman, si sono fatte sempre più liquide, e sottoposte alla spinta a competere per l’accesso ai consumi globali. Alla frammentazione sociale si sono sovrapposte la multiculturalità, la pluralità degli stili di vita. Che traiettorie sempre più individualizzate hanno comportato che venissero inquadrate come minacce messe in atto dagli altri, visti come competitors, ovvero concorrenti, più che come potenziali compagni con cui elaborare strategie collettive. È proprio tra le pieghe di questa società anonimizzata, frammentata, segmentata, impaurita, che alligna il securitarismo.
Una sinistra che si definisce tale, che fa propria l’esigenza di rispondere alla necessità di colmare lo scarto tra l’esistente e il possibile, di questa insicurezza si deve senz’altro occupare. Partendo però dalla consapevolezza che non si tratta di una questione individuale, o ascrivibile all’anomalia delle classi pericolose di volta in volta individuate. All’inizio degli anni Novanta, tra amministratori e accademici, questa presa di coscienza era diffusa. L’esperienza di “Città Sicure”, promossa in Emilia-Romagna dal compianto Massimo Pavarini, gli aveva dato forma. Ricerche approfondite sulla vita dei quartieri, sulla percezione della popolazione locale, sul consumo di sostanze, sulla prostituzione, avevano prodotto proposte originali, che andavano dalla polizia di prossimità alla riduzione del danno. Tuttavia, la convinzione che si vincesse al centro, portò a ignorare i suggerimenti di quella esperienza, fino a liquidarla del tutto, sia a livello locale e nazionale. Eppure, gli insegnamenti di “Città Sicure”, sono ancora lì. Le si potrebbero riprendere, e anche integrare con esperienze nuove, come la sicurezza plurale della Regione Umbria di qualche anno fa. Oppure si potrebbe guardare a Granada, in Spagna, dove la polizia municipale, ha istituito un parlamentino in cui rom, donne, LGBTQIA+, sex workers e consumatori di sostanze, in cui si elaborano strategie condivise per la gestione dell’ordine pubblico. Altri esempi, come il sindaco della notte, che negozia tra gli attori della vita notturna, sono lì per essere seguiti.
A partire dalla sicurezza, si potrebbe riprendere il cammino per emanciparsi dalla subalternità dalla destra. Soprattutto, si deve ricominciare a declinare la sicurezza dei diritti. Il crimine non paga. Specialmente a sinistra, dove il mercato non è il benvenuto.

*da Volere la Luna