Per la Palestina. Un appello dall’Università del Piemonte orientale Tre domande al prof. Giorgio Barberis

Giorgio Barberis, storico, Università del Piemonte Orientale

Roberto Cabrino: Puoi dirci come è nato l’appello pro Palestina all’interno dell’Università del Piemonte Orientale?

Giorgio Barberis: L’appello, appunto, nasce all’interno del mio Ateneo, l’Università del Piemonte Orientale, per iniziativa di alcuni docenti e ricercatori (la maggioranza degli afferenti al DIGSPES – il Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze politiche, che ho l’onore e l’onere di dirigere da un paio d’anni), i quali hanno poi coinvolto colleghe e colleghi del personale tecnico-amministrativo, e molte studentesse e studenti. Le firmatarie e i firmatari hanno sentito forte l’esigenza di porre nuovamente e con nettezza l’attenzione sulla tragedia palestinese.
Non si può tacere di fronte a ciò che è accaduto, e che continua ad accadere – nonostante la distrazione mediatica – a Gaza e in Cisgiordania. La violazione sistematica del diritto internazionale e i picchi di disumanità a cui abbiamo assistito sgomenti impongono una presa di posizione molto chiara e radicale. La esprimiamo nell’appello, già sottoscritto da alcune centinaia di persone della nostra comunità scientifica.
Confidiamo per il futuro in un’adesione ancor più ampia da parte del nostro Ateneo, nella sua interezza, e auspichiamo che non si esaurisca la mobilitazione di queste settimane in tutto il Paese, perché la tregua siglata è oltremodo labile e la situazione complessiva – come ben sappiamo – permane quanto mai drammatica.

R.C.: Tu parli, giustamente, della necessità di tenere alta la guardia e continuare nella mobilitazione. Quali pensi possano essere i passi possibili, oltre a quello che voi fate con l’appello, per andare in quella direzione?

G.B.: In effetti, credo che sia davvero fondamentale in questa fase tenere anzitutto molto alta l’attenzione mediatica su ciò che sta accadendo. Talvolta si sente dire polemicamente che scrivere e firmare appelli serve a poco. Al contrario, io penso che sia utilissimo “far sentire la propria voce”, ciascuna/o come e dove può. Ma certamente occorrono anche, e invero ancor di più, azioni concrete di lotta, resistenza e solidarietà. Penso, evidentemente, alla Global Sumud Flottilla, e ad altre possibili iniziative umanitarie dello stesso tipo. Penso pure – e qui chiamo in causa il mondo dell’università – a modalità per accogliere e dare sollievo a chi – temporaneamente, lo sottolineo! – ha la necessità di lasciare Gaza, ad esempio per continuare a studiare. L’UPO, nell’ambito del progetto IUPALS della CRUI, ha accolto tre studentesse palestinesi sostenendo la loro trasferta e il periodo di studio in Italia. È un inizio promettente, cha va incoraggiato e implementato.
Bisogna poi lavorare per arrivare a una condanna unanime delle azioni criminali dell’attuale governo israeliano, smuovendo ancor più l’opinione pubblica mondiale. Ma occorre anche, ampliando lo sguardo, aprire spazi di riflessione sulle contraddizioni evidentissime di un capitalismo finanziario vicino al collasso e di un neoliberalismo del tutto incapace di mantenere le sue promesse di pace, sicurezza e prosperità universale. Soprattutto, bisogna decostruire le retoriche belliciste e moltiplicare gli sforzi per cacciare finalmente la guerra fuori dalla Storia. I Potenti del mondo vogliono andare nella direzione opposta; bisogna fermarli! Sappiamo bene che, a volte, le Rivoluzioni arrivano inattese e trasformano, in modo rapido e impetuoso, “lo stato di cose presente” …  

R.C.: Trovo molto significativo che la vostra azione sia in grado di parlare al complesso di una comunità senza distinzione di ruoli. Non credi che una vicenda tragica e moralmente sconvolgente come questa possa essere anche occasione di riflessione su una possibile ricomposizione sociale e politica?

G.B.: Questo è esattamente il nostro auspicio. Le imponenti mobilitazioni delle scorse settimane, così partecipate e così “trasversali” nella loro composizione sociale e generazionale, ci hanno positivamente sorpreso. Si temeva un’apatia diffusa e invece di fronte al disumano la coscienza collettiva ha dato importanti segnali di risveglio. Certo, rimangono sacche di cinismo e di opportunistico distacco, ma è nato e si articolato un movimento molto ampio, per l’appunto senza distinzioni di classe e di età. La via è quella giusta.
Di fronte ai mali del mondo e all’orrore delle guerre e del genocidio, di fronte agli abissi di disuguaglianza e alle molteplici crisi del nostro tempo inquieto, prendere atto che non si può andare avanti così è il primo passo per cambiare davvero le cose. Poi, come insegnano gli Zapatisti del Chiapas, “si cammina domandando”, ossia si tiene sempre vivo il pensiero critico e aperto al dialogo e al confronto costruttivo; ma non si rimane fermi. La saggezza popolare dice che chi si ferma è perduto. Tanto più quando ci si trova in una situazione così devastante. Lo diciamo da tempo, ma ora è più vero che mai: cambiare si può e si deve!

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