Memorandum Italia–Libia: un’ennesima occasione persa per essere un paese civile

È accaduto di nuovo. L’Italia ha scelto – o meglio, ha deciso di non scegliere – lasciando che il Memorandum d’intesa con la Libia si rinnovasse automaticamente, senza alcuna revisione, senza alcun dibattito politico, senza alcuna assunzione di responsabilità. Un atto di omissione che pesa come una condanna morale.
L’accordo, siglato per la prima volta il 2 febbraio 2017 dall’allora Governo Gentiloni e dall’allora Ministro dell’Interno Minniti, entrambi espressione del Partito Democratico, prevede la cooperazione tra Italia e Libia in materia di sviluppo, controllo dei flussi migratori, contrasto al traffico di esseri umani, al contrabbando e alla criminalità transfrontaliera. Ma dietro la facciata della “cooperazione”, si nasconde un meccanismo disumano di delega della violenza: l’esternalizzazione delle frontiere europee a uno Stato fallito, frammentato e dominato da milizie, dove i diritti umani non sono nemmeno contemplati.
Secondo l’articolo 8 del Memorandum, le parti possono proporre modifiche solo per iscritto e con almeno tre mesi di preavviso rispetto alla scadenza. Il termine utile per bloccare o rinegoziare l’accordo è ormai trascorso: esso resterà in vigore. Ancora una volta, il silenzio delle istituzioni ha scelto per noi.
Con questa inerzia, l’Italia continuerà a essere il mandante di stupri, torture, sequestri e violazioni sistematiche dei più elementari diritti umani, perpetrati nei centri di detenzione libici, veri e propri lager dove migliaia di persone vengono rinchiuse, stuprate, picchiate, abusate o ridotte in schiavitù.
A rendere il tutto più grave è l’assenza quasi totale di discussione pubblica. Nel Parlamento evidentemente non è stato ritenuto necessario aprire un confronto. Solo le ONG, le Associazioni umanitarie e le realtà di movimento e della società civile hanno levato la voce, denunciando l’orrore e chiedendo la sospensione di un accordo che tradisce i principi fondamentali su cui dovrebbe basarsi uno Stato di diritto. Ma quelle denunce, ancora una volta, sono rimaste inascoltate.
Nel frattempo, la cosiddetta guardia costiera libica, sostenuta economicamente e logisticamente dal nostro Paese, continuerà a intercettare i barconi di migranti nel Mediterraneo attraverso delle vere e proprie cacce all’uomo portate avanti con metodi brutali. Le testimonianze parlano chiaro: si è addirittura arrivati a raffiche di colpi d’arma da fuoco contro le imbarcazioni della flotta civile di soccorso, come nel drammatico episodio del 26 settembre, quando una motovedetta libica fornita dal Governo italiano ha aperto il fuoco contro la Sea-Watch 5 impegnata nel salvataggio di 66 persone nel Mediterraneo centrale.
Scene da guerra, non da cooperazione.
È dunque legittimo chiedersi quale idea di civiltà e di umanità l’Italia intenda rappresentare. Continuare a finanziare, armare e addestrare uno “Stato non Stato” come la Libia significa perpetuare un sistema di violenza che ci rende non complici ma i mandanti di ciò che avviene oltre le nostre frontiere.
Il governo Meloni, come già i precedenti governi di diverso colore politico, ha scelto di non interrompere un ciclo di politiche migratorie fondate sulla repressione e sulla paura, un approccio bipartisan che dura ormai da anni. Si tratta di un errore enorme, sia storico che politico, perché le migrazioni non sono un’emergenza, ma un fenomeno strutturale e millenario della storia umana. Reprimerle non serve a fermarle: le radici del movimento delle persone sono profonde, legate a guerre, disuguaglianze, crisi climatiche e collassi economici.

Ciò che servirebbe è una visione lungimirante: canali legali e sicuri di accesso, corridoi umanitari, programmi di integrazione e libera circolazione delle persone. Ma tutto questo richiede volontà politica, coraggio e capacità di guardare oltre il consenso immediato e le campagne elettorali permanenti basate sull’odio delle minoranze.
Oggi, invece, l’Italia ha scelto ancora una volta la via più semplice e più vile: voltarsi dall’altra parte. Così, mentre continueranno le violenze nei centri di detenzione, i respingimenti illegali e le tragedie nel Mediterraneo, la nostra coscienza collettiva si sporcherà un po’ di più.

La storia, prima o poi, ci chiederà conto di tutto questo. E non potremo dire che non sapevamo.