Abbiamo incontrato Giuliana Sgrena a margine di una delle presentazioni del suo ultimo libro “Me la sono andata a cercare. Diari di una reporter di guerra” (Editori Laterza).
Alberto Deambrogio: Il titolo del tuo libro, “Me la sono andata a cercare”, è una risposta provocatoria all’accusa mossa contro di te (e molte altre giornaliste) dopo il rapimento. A vent’anni di distanza, senti che questa narrazione tossica e colpevolizzante nei confronti delle donne che scelgono mestieri “di frontiera” sia cambiata, o persiste ancora un pregiudizio di fondo nella società e nell’ambiente giornalistico stesso?
Giuliana Sgrena: Il modo di fare giornalismo, e quindi informazione, è molto cambiato da quando io ho iniziato, circa quarant’anni fa. È molto cambiato il modo di raccontare le guerre ma anche i fatti di casa nostra. Io non mi sono mai occupata della politica italiana se non quando aveva legami con la situazione internazionale e soprattutto con gli interventi militari in vari scenari di guerra. Sono cambiati i mezzi per trasmettere articoli e immagini. Quando ho cominciato la preoccupazione era quella di trovare un telefono per dettare il pezzo, le nuove tecnologie permettono di trasmettere testi e immagini in tempo reale in tutto il mondo, ma l’informazione è meno approfondita e accurata oggi di quanto lo fosse decenni fa. Una volta ogni giornalista cercava notizie che nessun altro aveva, oggi uno scoop non ha più senso perché la competizione è sulla velocità: la breaking news. L’importante oggi è dare la notizia per primi e questo esclude la possibilità di fare verifiche. Le notizie che correggono le fake news non raggiungono mai lo stesso pubblico ingannato. Sono stati gli Usa a militarizzare l’informazione sui conflitti. Nella guerra in Vietnam erano stati proprio i giornalisti sul campo a far cambiare l’opinione pubblica statunitense. Quindi occorreva evitare la presenza di giornalisti. Nella prima guerra del Golfo (1991) i giornalisti erano stati evacuati da Baghdad, erano riusciti a riprendere i primi bombardamenti Peter Arnett della Cnn e Stefano Chiarini de il Manifesto, ma poi anche loro erano stati dirottati in Giordania. Nella seconda guerra del Golfo (2003) i giornalisti che erano in Iraq (almeno la maggior parte) non avevano accettato le pressioni delle ambasciate perché lasciassero l’Iraq. Gli Usa avevano cercato di ricorrere ai riparti istituzionalizzando i giornalisti embedded (addestrati e scelti se idonei e poi sottoposti alla censura) che erano arrivati a Baghdad con divisa color cachi e con il badge americano che noi non avremmo mai ottenuto perché considerati «unilaterali». Mi ricordo che a quel punto quando dovevo superare un controllo esibivo orgogliosamente il cartoncino giallo rilasciato dagli iracheni ai giornalisti: paradossalmente eravamo riusciti a bypassare le rigidità della dittatura di Saddam per scontrarci con la «democrazia» americana. In guerra la libertà di informazione si scontra con la propaganda di guerra.
Quando, dopo il 2005, informare sui campi di guerra era diventato molto rischioso – giornalisti uccisi, anche se embedded, rapiti, etc – gli editori avevano proteggere la vita dei propri giornalisti e risparmiare sulle costose assicurazioni. In quel periodo si approfittava dei citizen journalist sia per le notizie che per le immagini, ai quali non veniva garantita protezione e risarcimento in caso di morte sul campo. I giornalisti sono tornati in campo nella guerra in Ucraina. In Russia non si può andare, pochi si sono spostati nelle zone ucraine occupate dai russi, la maggior parte riferisce della guerra riprendendo distruzioni e intervistando le vittime. In Ucraina non ci si può muovere liberamente ma solo sotto il controllo delle autorità ucraine, altrimenti si è espulsi. È difficile sottrarsi alla propaganda di guerra – esercitata da tutte le forze in campo – soprattutto se non c’è libertà di movimento. Israele invece ha commesso un genocidio cercando di eliminare tutti i testimoni, letteralmente. Giornalisti stranieri non hanno potuto entrare nella striscia e quelli palestinesi sono stati presi di mira e uccisi. Tanto che alla fine hanno persino evitato di mettere il giubbotto anti-proiettile per non essere individuati. L’informazione è morta a Gaza.
A.D.: Tu hai sempre praticato un giornalismo “di prima mano”, andando sul campo e raccontando le storie delle persone, spesso donne, che vivono il conflitto. In che modo, secondo la sua esperienza, l’approccio femminile all’essere reporter di guerra differisce da quello maschile e quali prospettive uniche, spesso trascurate dal mainstream occidentale, riesce a portare alla luce stando “dalla parte sbagliata della barricata”, come scrivi nel libro?
G.S.: Le donne algerine sono state determinanti nel mio modo di seguire le guerre, mi hanno aperto un mondo escluso dal relativismo culturale che vede nelle espressioni più diverse dalle nostre (occidentali) quelle più autentiche e rappresentative del mondo arabo-musulmano e islamico in generale. In Algeria ho incontrato donne laiche, femministe, che lottavano – e ancora lottano – per i loro diritti: diritti delle donne che sono universali. Le algerine mi hanno resa consapevole che in tutte le situazioni dovevo essere me stessa, senza camuffamenti e infingimenti, come il velo indossato da molte giornaliste anche quando non è imposto. Così in ogni paese proprio la complicità delle donne mi è servita per approfondire contesti e non accontentarmi della superficialità.
A.D.: Nel libro racconti di come il tuo lavoro consistesse nel cercare e verificare le notizie sul campo, un principio cardine del giornalismo. Nell’era della disinformazione digitale e della guerra ibrida, dove i conflitti si combattono anche sui social media, quanto è diventato più difficile e cruciale questo ruolo di verifica per un reporter di guerra, e quali sono le maggiori sfide etiche e professionali che ti rovi ad affrontare oggi rispetto al passato?
G.S.: Sono riuscita a viaggiare e raccontare guerre con le poche risorse che poteva garantirmi il Manifesto e ne sono orgogliosa. Non ho mai pagato qualcuno perché mi portasse le notizie, non sono mai rimasta in albergo a cercare le news su internet, non ho mai scritto un reportage prima di verificare le mie supposizioni sul campo. Me la sono sempre andata a cercare.