*Monica Lanfranco è giornalista, formatrice e scrittrice; conduce corsi sulla comunicazione e il linguaggio non sessista, la risoluzione nonviolenta dei conflitti nel lavoro e nelle dinamiche collettive. Dal 1994 dirige il trimestrale femminista “Marea” e nel 2008 ha fondato “Altradimora”, luogo di seminari e incontri femministi. Tra le pubblicazioni più recenti “Crescere uomini” (Erickson 2019), “Voi siete in gabbia, noi siamo il mondo” (Vanda 2021), “Mio figlio è femminista” (2023) e “Donne che disarmano” (Vanda 2024). Ha curato il testo che raccoglie gli scritti di Lidia Menapace “Fuori la guerra dalla storia” (Enciclopedia delle donne 2025)
Evasia Sancio: La dichiarazione del Capo di Stato Maggiore francese, che invita a prepararsi a ‘sacrificare i propri figli’, rappresenta un salto di qualità culturale e antropologico nell’accettazione della guerra come normalità? In che modo questa retorica militare si inserisce o si scontra con l’etica della cura e della vita che il pensiero femminista promuove e quali sono le implicazioni a lungo termine per la società civile?
Uno dei problemi alla diffusione delle modalità nonviolente, e del pensiero che le sottende, è che l’informazione e la formazione, dalla famiglia alla scuola ai social raramente le raccontano, descrivono e valorizzano, ed è anche per questo che ciò che noi apprendiamo maggiormente sono i progressi impressionanti delle pratiche del dominio e della logica della potenza. Trasmettiamo la logica del dominio, e la facciamo nostra, perché abbiamo pochi elementi per scegliere altre strade, pratiche e visioni. Se cresciamo figli e figlie nella convinzione che la violenza sia l’unico modo per difenderci e ottenere giustizia ecco che la violenza sarà lo strumento principale per primeggiare, affermarsi e relazionarsi. E di frequente insegniamo la violenza in modo inconscio, non facendo attenzione alle parole che usiamo. Per l’importanza del loro uso, del loro abuso, di come a esse sia affidato lo straordinario compito di fare o disfare le cose, creando o distruggendo, costruendo pace o guerra. Le parole sono pietre sulle quali costruiamo il senso del mondo, diamo forma al mondo. Le parole che usiamo e insegniamo hanno un ruolo chiave nella distruzione (o costruzione) della nostra e altrui umanità. Dobbiamo essere consapevoli di come alle parole, che sembrano talvolta inoffensive ma non lo sono, seguano azioni in grado di portare grande distruzione o grande riparazione. Anche all’interno dei movimenti contro il neoliberismo che si oppongono al crescente, e ormai permanente, uso della guerra come strumento legittimo in caso di dissidi nazionali e internazionali, spesso il linguaggio e le metafore usate sono mutuate dal bagaglio bellico. E questo è un errore enorme.
E.S.: In un clima globale che sembra reintrodurre l’idea dell’inevitabilità del conflitto armato e della militarizzazione crescente (come delineato nel tuo libro ‘Donne che disarmano’), come si può contrastare questa narrazione? Quale ruolo specifico possono avere le donne nell’articolare e produrre un’alternativa politica e ideologica concreta, non solo come pacifiste, ma come agenti di un cambiamento strutturale che superi la logica patriarcale della guerra?
Avere fiducia, avere pazienza, guardare al di là del momento e valutare le conseguenze delle risposte immediate prima di metterle in atto, fare spazio all’attesa, frenare la fretta, non farsi guidare dalla rabbia: questi atteggiamenti non sono maggioritari nella contemporaneità, nutrita quotidianamente da impazienza, iperreattività tecnologica, narcisismo, smemoratezza e ignoranza del passato, anche di quello recentissimo.
Viviamo un presente velocissimo, immemore e senza radici, e per questo sempre più povero, impoverito e pericoloso. Ma penso che, se riusciamo a usare questi tempi di difficoltà per studiare, resistere all’impulso di fare solo opposizione, e invece ci alleniamo ad affinare le nostre visioni e prepararci all’alternativa allora sapremo, al momento giusto, usare questo inverno per essere pronte e pronti a vivere la primavera che arriverà, capendo che evitare la violenza non è solo possibile, ma anche più efficace e vantaggioso per tutte le parti in causa. L’assunto di base è: smantellare la logica amico/amica, nemico/nemica. Lo si può fare, ma è necessario studiare, trasmettere pratiche nonviolente, comunicare, ascoltare, usare fantasia e competenze.
E.S.: Tu hai spesso sottolineato il legame tra nonviolenza e femminismo, definendo la guerra come ‘forma estrema del patriarcato’. Considerato l’attuale panorama geopolitico, sempre più orientato verso soluzioni militari, come si può tradurre la nonviolenza femminista da principio etico a strategia politica efficace per disarmare non solo le nazioni, ma anche le mentalità che accettano il ‘sacrificio’ delle nuove generazioni?
“Non possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone.” La frase, contenuta in “Age, Race, Class and Sex: Women Redefining Difference”, è datata aprile 1980 e a pensarla e scriverla, consegnandola a noi, è la poeta attivista femminista nordamericana Audre Lorde. Si tratta di dodici parole, sistemate in questa breve locuzione, che racchiudono il senso profondo della pratica e della visione filosofica e politica della nonviolenza, che Lorde ha sempre intimamente collegata al pensiero incarnato del femminismo. Prendo ancora a prestito un brano del saggio appena citato, perché la riflessione di Lorde, che arriva da oltre quarant’anni fa, illumina un presente che ha enorme necessità di ispirazione: “Il futuro della nostra terra può dipendere dalla capacità di tutte le donne di identificare e sviluppare nuove definizioni di potere e nuovi modelli di relazionarsi attraverso la differenza. Le vecchie definizioni non ci sono servite, e neanche la terra che ci sostiene. I vecchi schemi, non importa quanto riarrangiati intelligentemente per imitare il progresso, ci condannano ancora a ripetizioni modificate superficialmente degli stessi vecchi scambi, della stessa vecchia colpa, odio, recriminazione, lamento, sospetto. Perché abbiamo, costruiti dentro di noi, vecchi tracciati di aspettative e risposte, vecchie strutture di oppressione, e queste devono essere modificate nello stesso momento in cui modifichiamo le condizioni di vissuto che sono un risultato di quelle strutture. Perché gli strumenti del padrone non potranno mai smantellare la casa del padrone”. È inutile negare che queste parole, per molte donne e uomini suonano belle, sì, ma utopistiche, come quelle ormai famose di Christa Wolf, adottate in molte occasioni dai movimenti per la pace, in particolare dalle Donne in Nero: «Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere». Eppure, per realizzare l’invito di Lidia Menapace a mettere ‘fuori la guerra dalla storia” bisogna smettere di considerare che esista una violenza ‘giusta’ se la esercitiamo noi che siamo contro la guerra e il neoliberismo. La metafora della tessitura è, ai giorni nostri, usata comunemente per indicare le reti dell’attivismo, della collaborazione sociale, culturale e politica. Ma è rarissimo che si rammenti, anche in ambienti colti e accademici, che la prima a parlare di “tessere reti” è stata proprio Lisistrata, il cui nome significa “colei che scioglie gli eserciti”: scioglie, non distrugge. Lisistrata sfidò gli uomini armati perché si sciogliessero gli eserciti e si costruisse la tela della socialità: un tessuto che serve ai corpi reali come, nel simbolico, per la condivisione dello spazio comune. È quello che continuo a trasmettere nel mio lavoro di formazione: l’unico modo per costruire, qui e ora, un mondo diverso possibile è la necessità di usare la forza della nonviolenza, non la forza e basta. Sempre.