L’industria delle armi corre più veloce della guerra

di Raffaele Crocco, tratto da Unimondo Guardando questa mappa industriale, una cosa appare chiara. Le guerre non sono più solo tragedie umane e politiche, ma elementi essenziali di un’economia criminale che continua a crescere, nonostante sia controllata da pochi

L’industria della armi non conosce recessione. Mentre l’economia arranca fra crisi da cambiamento climatico e tensioni sociali, l’economia di guerra appare florida e garantisce profitti ai pochi, pochissimi, che la controllano.
Ce lo racconta ancora una volta lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), con i dati sulle prime cento aziende del settore. Nel 2024 hanno raggiunto ricavi record: 679 miliardi di dollari. Numeri che raccontano tutto. Raccontano, ad esempio, che se Gaza e Ucraina sono il fallimento del diritto umanitario e delle diplomazia, sono una vera manna per chi sulla morte specula e guadagna.
Tant’è, vediamo il dettaglio. Negli Stati Uniti, cuore pulsante dell’apparato militare globale, i ricavi sono cresciuti ancora, arrivando a 334 miliardi di dollari. In testa alla classifica ci sono colossi come Lockheed Martin e Northrop Grumman. L’indagine SIPRI svela, però, anche le criticità. Ci sono, infatti, ritardi nelle commesse, sforamenti di preventivi di spesa, programmi che arrancano, come quello – guarda un po’ – degli aerei F35 acquistati anche dall’Italia.  Tutto questo non rallenta la macchina da guerra statunitense, che ora ha una protagonista in più, cioè SpaceX di Elon Musk. La guerra, ormai, guarda anche allo spazio e il business la segue.
In Europa il quadro è simile, con un’accelerazione ancora più evidente: +13%, trainata dai timori legati alla Russia e dalla necessità di rifornire un’Ucraina stremata. Il caso più emblematico è il Czechoslovak Group, che vede salire i propri ricavi del 193% grazie ai proiettili destinati al fronte ucraino. Intanto l’industria continentale avverte: mancano materiali critici, la dipendenza da Cina e mercati instabili può diventare l’anello debole di un riarmo che qualcuno vuole sempre più poderoso.
A macinare ricavi nonostante le sanzioni è anche la Russia. Rostec e United Shipbuilding crescono del 23%, segno che la guerra, anche quando apparentemente isola, non interrompe mai davvero il flusso del denaro. In Asia e Oceania la frenata dell’industria cinese pesa, con un –10% per i giganti di Pechino: Norinco è in caduta libera. Giappone e Corea del Sud compensano con aumenti robusti, sospinti dalle tensioni su Taiwan e Corea del Nord.
C’è, poi, il Medio Oriente, sempre più hub globale dell’industria bellica: 31 miliardi di dollari, nove aziende in classifica. Israele, immerso nella guerra a Gaza, vede crescere del 16% i ricavi dei suoi produttori. Elbit, Israel Aerospace Industries, Rafael: nomi che diventano familiari quanto quelli dei luoghi colpiti dai loro sistemi d’arma. La domanda internazionale di droni e contromisure cresce a livelli mai visti. L’Iran, con i suoi attacchi e contrattacchi, fa da moltiplicatore. Il mercato risponde.
Anche la Turchia consolida la propria corsa, grazie soprattutto a Baykar e ai suoi droni, esportati ovunque. Dicono gli esperti che sono diventati moneta di scambio geopolitica. Sono parte della nuova grammatica della guerra. Nella classifica, giusto per globalizzare la cosa, ci sono anche aziende militari italiane, ovvio e poi di Regno Unito, Francia, Germania, India, Taiwan, Norvegia, Canada, Spagna, Polonia e Indonesia.
Guardando questa mappa industriale, una cosa appare chiara. Le guerre non sono più solo tragedie umane e politiche, ma elementi essenziali di un’economia criminale che continua a crescere, nonostante sia controllata da pochi. La guerra è diventata il motore per arricchirsi, esattamente come ogni altra attività criminale organizzata. E come ogni motore, ha bisogno di carburante. Se non c’è, lo crea, inventando crisi, instabilità, paure nei governi e nei popoli.
L’indagine di SIPRI ci dice che mentre parliamo di pace, una parte del Mondo investe nella guerra. E la guerra, come sempre, presenta il conto a chi non vuole e non può pagarlo.