Tra cemento e speculazione: la falsa rigenerazione urbana a Roma

Roma sta attraversando una fase di trasformazione profonda, in cui vaste aree dismesse — dagli ex Mercati Generali all’ex Fiera, dagli ex depositi AMA alle zone di Caravaggio e piazza dei Navigatori — vengono presentate come “rigenerazioni”. La retorica istituzionale parla di riqualificazione, sostenibilità e servizi, ma ciò che vediamo è un aumento delle cubature, una crescita della rendita privata e un declino del ruolo del pubblico. Dietro l’etichetta rassicurante della rigenerazione si nasconde un disegno speculativo che sta ridisegnando la città in modo diseguale.
Il processo decisionale è uno degli elementi più critici: la partecipazione è ridotta a rituale. Le assemblee si svolgono quando gli accordi sono già definiti, le consultazioni hanno funzione decorativa, e concetti come “coprogettazione” servono solo a legittimare scelte prese altrove. È la logica dell’urbanistica contrattata, dove il pubblico non governa: ratifica.

Il quadro normativo come volano della speculazione
La cornice giuridica che sorregge questi interventi è rappresentata dalla Legge Regionale 7/2017 sulla rigenerazione urbana, che sulla carta dovrebbe tutelare il suolo, favorire il recupero dell’esistente e promuovere efficienza energetica e sicurezza. Le modifiche introdotte con la nuova LR 12/2025 hanno ampliato le premialità volumetriche, offrendo margini ulteriori alla trasformazione in senso edificatorio.
La delibera della Giunta capitolina del 20 novembre 2025 ha definito le modalità di applicazione della normativa, ma ha lasciato aperta la possibilità di intervenire su ex aree industriali e dismesse con aumenti volumetrici consistenti. Ciò che dovrebbe essere uno strumento per il recupero si trasforma così in un meccanismo che permette veri e propri “salti edilizi”, spesso in contrasto con lo spirito del Piano Regolatore e con i principi della rigenerazione autentica.
Il risultato è una città in cui strumenti nati per tutelare l’interesse pubblico vengono utilizzati per aggirare vincoli urbanistici, indebolire la pianificazione e favorire operazioni funzionali al mercato. Lo hanno denunciato comitati e associazioni: si sta neutralizzando la funzione regolativa del PRG, sostituendola con una contrattazione continua tra amministrazione e operatori privati.

Ex Mercati Generali, ex Fiera e il paradigma della rendita
Il progetto per gli ex Mercati Generali, reso operativo nel 2025 con una convenzione integrativa, è emblematico. A fronte di investimenti consistenti e dell’inserimento di student housing “di lusso” (con stanze ad € 1.050+oneri al mese), servizi e spazi commerciali, l’intervento prevede un aumento volumetrico rilevante che cambia la morfologia urbana e impatta su traffico, servizi e mobilità.
L’ex Fiera segue lo stesso schema: un vasto patrimonio pubblico degradato viene affidato alla valorizzazione privata in nome dell’emergenza del decoro, con nuovi alloggi – una minima quota dei quali in housing sociale (che NON è edilizia residenziale pubblica!) – e funzioni commerciali presentate come “rilancio”.
Il punto non è negare il degrado esistente, ma rifiutare l’idea che l’unica alternativa sia la resa totale al mercato. Queste trasformazioni, scollegate da una vera strategia di coesione territoriale, generano rendite, aumentano il valore degli affitti, privatizzano spazi strategici e riducono ulteriormente il ruolo del pubblico.
Si è smarrito il principio secondo cui le grandi trasformazioni urbane devono produrre servizi strutturali: trasporti, scuole, verde permeabile e non ornamentale, infrastrutture per la mobilità attiva, spazi sociali e funzioni pubbliche. La retorica dell’“area abbandonata” è diventata un alibi per accettare qualsiasi intervento, purché generi valore immobiliare.

Un modello senza visione: mobilità ignorata, diritti compressi
Questi interventi non dialogano tra loro e non tengono conto degli effetti cumulativi sul quadrante urbano. La mobilità resta il grande assente: niente corridoi preferenziali, nessun potenziamento del trasporto pubblico, piste ciclabili disegnate e poi lasciate nel limbo, marciapiedi e attraversamenti ignorati. Tutto ruota intorno ai parcheggi, come se la città fosse destinata a essere governata dalle auto.
La rigenerazione urbana, nelle mani di questo modello, diventa uno strumento per trasformare aree strategiche in risorse economiche private, con profondi squilibri sociali e ambientali.

Per una rigenerazione vera: pubblica, democratica, collettiva
Invertire la rotta significa restituire alla città una direzione politica chiara:
una rigenerazione che parta dal patrimonio pubblico, dal diritto all’abitare che tenga conto e rimetta al centro l’edilizia residenziale pubblica e non l’housing sociale, dalla mobilità sostenibile, da servizi diffusi, da quartieri solidi e non da progetti isolati. Serve pianificazione integrata, partecipazione reale, trasparenza degli atti, controllo democratico e tutela del suolo.
E serve soprattutto il coraggio di dire che la città non può essere governata dalla rendita.
Roma non ha bisogno dell’ennesima vetrina per investitori e turisti, né di un salotto urbano confezionato per pochi: ha bisogno di una rigenerazione che rompa con la politica del cemento e restituisca la città a chi la vive, non a chi la compra.
Finché questo non accadrà, la cosiddetta rigenerazione resterà il nome elegante di un vecchio paradigma: una politica urbanistica che continua a produrre speculazioni travestite da innovazione, sacrificando l’interesse pubblico agli appetiti dei costruttori