Punto finale sulla scuola?

Fare il punto sullo stato attuale del sistema statale e pubblico dell’istruzione e della formazione è operazione difficile, data la fluidità con cui avvengono i cambiamenti. Il sistema è scosso da movimenti di varia intensità che si susseguono dagli anni Ottanta. Da circa quarant’anni, norme e decreti ordinano provvedimenti di diversa scala che alterano quanto la nostra Costituzione aveva disegnato nel 1948 nei suoi 12 principi e all’art 33, prevedendo una scuola pubblica, di tutti, garantita, e dunque erogata dallo stato, libera da ogni ingerenza esterna rispetto alle modalità di ricerca scientifica e di insegnamento disciplinare. La crescita delle creature piccole e giovani come patrimonio per il futuro della collettività venne allora pensato come organo costituzionale, come diritto inalienabile e in-appropriabile. L’erosione di questo paradigma, fondato su un’idea estensiva, partecipativa di ciò che è pubblico, ha radici storiche, ramificazioni spesso intricate che, per ragioni di spazio, non analizzerò se non di sfuggita, occupandomi di quattro aspetti nodali: 1. Rottura dell’unità nazionale mediante le forme dell’Autonomia Differenziata; 2. Attacco al primo ciclo dell’istruzione; 3. Svendita alle aziende della formazione professionale e tecnica; 4. Invasività dell’INVALSI come certificatore principale degli apprendimenti. Solo in apparenza emergenziali, tali nodi non sono eventi estemporanei ma tasselli della sistematica liquidazione di ciò che è pubblico al mercato. Lo stato si fa minimo spostando verso la privatizzazione i suoi settori di intervento più importanti, come sta avvenendo anche per la sanità/salute e per la previdenza sociale. Norme di compatibilità, raccomandazioni europee, dettato mercantile, sono alla base delle agende governative ormai catturate nella vasta operazione neoliberista. 

  1. La cosiddetta autonomia differenziata è un ampio disegno di regionalizzazione che, pur previsto dagli artt. 116,117,118, 119 dopo la riforma costituzionale del Titolo V, nei limiti lì indicati e in quelli annotati dalle sentenze delle corti, procede a pieno ritmo. Si tratta di spostare materie di interesse concorrente, ma anche esclusivo dello stato, verso le regioni che ne fanno richiesta. È di questi giorni la firma da parte di Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria di pre-intese su materie che non prevedono la definizione dei livelli essenziali di prestazione (LEP). L’essenzialità di questi livelli di erogazione di servizi già di per sé è concetto ambiguo: banalmente da intendersi come necessari (come definire i bisogni di soddisfazione necessaria in ambiti come l’istruzione, ad esempio?), oppure all’essenza, al minimo previsto dalla disponibilità fiscale e di reddito personale? Tra l’altro le norme generali dell’istruzione, pur rientrando fra le materie di cui andrebbero obbligatoriamente definiti i LEP, sono state surrettiziamente inserite, da un decreto del Ministro Calderoli in discussione in Commissione al Senato, come oggetto di pre-intesa. Questo potrà provocare la regionalizzazione del reclutamento dei docenti, dei valori salariali, degli obiettivi/traguardi disciplinari per competenze, dell’organizzazione degli uffici amministrativi, ecc.   
  2. La scuola primaria, elementare, inserita come spezzone fondamentale nel primo ciclo dell’istruzione, forse proprio a causa del suo pregevole lavoro, subisce un’azione di attacco a più livelli. L’ultimo in ordine di tempo è il divieto di sostituzione dei docenti e l’utilizzazione delle ore di compresenza nel Tempo pieno o Modulare, insieme alle ore di Educazione Motoria da quest’anno affidate a uno specialista, dunque sottratte all’insegnante curricolare, per la copertura delle assenze brevi. Inutile dire che questo significa eliminare un pilastro del tempo scuola – non a caso definito dalla norma pieno – in cui più docenti potevano lavorare sullo stesso gruppo classe per quattro ore settimanali. Così come si elude l’annoso problema del precariato, marginalizzandone funzione e aspettative di regolarizzazione. La valutazione, come dirò già in mano all’INVALSI al secondo e al quinto anno di primaria, continua a subire modifiche irrazionali. Si torna, con mossa apparentemente più consona all’età dei bambini, alla scheda descrittiva, di cui già due volte sono cambiati i parametri con la relativa confusione nelle definizioni dei livelli e con il proliferare di corsi e corsetti rivolti agli insegnanti per standardizzare i criteri.
  3. La recente legge 30/10/2025 n.164 riduce – convertendola da sperimentale a ordinamentale – la durata della filiera professionale e tecnica a quattro anni, più due da spendere eventualmente negli Istituti Tecnici Superiori (ITS), pseudo-università, pseudo-Accademy, completamente in mano alle aziende, nonché alla certificazione INVALSI come requisito, insieme all’esame di stato, per l’accesso. Con l’approvazione dell’Autonomia Differenziata essi diventano terreno di caccia per le piccole medie imprese e per gli appaltatori. Si tratta di attività di fatto solo lavorative che hanno già provocato, con i patti di Alternanza Scuola Lavoro (ASLO, oggi PCTO), enormi danni, anche mortali. Una spinta indiretta, tra l’altro, a intraprendere la strada del tirocinio lavorativo a 15 anni: tanto serve solo imparare un mestiere (precarizzato, flessibile!). Genera sconcerto il fatto che per l’eliminazione del quinto anno (1056 ore) occorra la deliberazione del Collegio Docenti che, dato il dettato normativo, diventerebbe solo l’espressione di un giudizio senza effettivo valore.
  4. Citato già nei punti precedenti, l’INVALSI diventa il perito unico per la definizione delle competenze. Tralascio – perché altrove affrontata ben oltre i limiti imposti a questo scritto – la riflessione sull’ambivalenza del termine, che da conoscenza e prassi diventa il bagaglio minimo di nozioni, di saperi che al volgo servono per soddisfare le esigenze del mercato. Allineamento fra scuola e offerta di lavoro, soprattutto adattamento alle condizioni di precariato e di insicurezza esistenziale già più su accennate. I test, la loro logica spietatamente algoritmica, normalizzante al minimo previsto dal correttore (sempre un algoritmo), sono la migliore espressione della marginalizzazione del ruolo docente nella progettazione e nella valutazione. L’inserimento dei risultati dei test nel curriculum dello studente costituisce elemento insindacabile, secretato l’esito, impossibile ogni effetto di restauro del dato e di suo oblio. Non solo, ma si tratta di un vero e proprio stigma su coloro che, nella curva di Gauss che va da 1 a 5, occupano le posizioni 1/3, i cosiddetti fragili.

Come si noterà pur nell’esiguità della mia analisi, la storia è lunga e i quattro nodi la condividono sostenendosi mutualmente nel ridisegnare una messa in forma della scuola statale e pubblica in un modello basato sul censo e sul merito individuale. Proprio mentre si sprecano fra gli accademici e i commentatori prezzolati le citazioni estrapolate dal pensiero dei pedagogisti e dei maestri (le Maestre!) che hanno fatto grande la scuola, ai fine di reclutarli fra i sostenitori della grande de-forma.

Fine quindi inesorabile della scuola che abbiamo conosciuta e praticata? Pur ferita, pur con la sua disorganica struttura in ordini e gradi che fra loro non sembrano parlarsi, la scuola mostra ancora sacche di resistenza fra gli insegnanti, negli studenti delle superiori e dell’università. Movimenti spesso senza linea politica e sindacale ma che, per ciascuno dei punti su analizzati, sfruttano le contraddizioni delle agende politiche e le volgono a iniziative e ad attività di contrasto. Mi piace pensare che non sia resilienza, ma capacità di rivoluzionare l’esistente a partire da una valutazione realistica di condizioni e tempi.