Genova – “Siamo tornati, ma la nostra battaglia non è finita. Dobbiamo mantenere alta la pressione in Italia per la liberazione di tutti gli attivisti della Global Flotilla e per porre fine al genocidio contro il popolo palestinese”. Con queste parole determinate, Jesè Nivoi, lavoratore portuale del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (CALP) di Genova, inizia il suo crudo resoconto dell’arresto illegale e della detenzione subiti per mano delle forze armate israeliane. La sua testimonianza, rilasciata al media Chrono, non è solo il racconto di un’esperienza personale, ma una denuncia vibrante delle violenze e delle umiliazioni sistematiche inflitte a chiunque osi sfidare il blocco di Gaza.
La sua avventura umanitaria a bordo della “Global Freedom Flotilla”, un convoglio internazionale di navi cariche di aiuti destinati alla popolazione palestinese, si è trasformata in un incubo il giorno dell’arrembaggio in acque internazionali. “Sapevamo come vengono trattati i prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane”, spiega Nivoi, “ma toccare con mano, anche solo in minima parte, quella realtà è un’altra cosa”.
L’umiliazione nel porto di Ashdod
Una volta sbarcati con la forza nel porto di Ashdod, gli oltre duecento attivisti sono stati costretti per ore a rimanere in ginocchio, con lo sguardo basso. “Se alzavi la testa, se cercavi di incrociare i loro occhi, ti spingevano la faccia a terra”, ricorda Nivoi. La violenza non è stata solo fisica, ma anche psicologica, studiata per annientare la dignità. Per sottrarsi agli sguardi indiscreti delle telecamere internazionali, i prigionieri sono stati spostati all’interno di un magazzino, trasformato per l’occasione in una macabra “catena di montaggio” della repressione.
Qui, Nivoi ha assistito all’umiliazione di Greta, un’altra attivista, a cui è stata gettata addosso una bandiera israeliana tra insulti in ebraico e sputi. Il processo di schedatura è stato meticoloso e invasivo: spogliarello, perquisizioni, foto segnaletiche, acquisizione delle impronte digitali e della retina. Ogni oggetto personale, anche un libro come “Pensando ad Anna”, è diventato pretesto per interrogatori politici, per poi finire nella spazzatura. “Mi hanno chiesto insistentemente di firmare un foglio in ebraico, ovviamente mi sono rifiutato”.
La propaganda e la detenzione
Il racconto si fa ancora più agghiacciante quando Nivoi descrive il momento della sua formale messa in arresto. È stato il primo ad essere ammanettato, con fascette strette fino a bloccare la circolazione del sangue, e bendato con un drappo con i colori della bandiera israeliana. In quel frangente, sospetta di essere stato utilizzato per la propaganda di un ministro israeliano giunto sul posto. “Credo sia stato lui ad avvicinarsi e a sussurrarmi all’orecchio, in inglese, che lavoro per il terrore e che è colpa mia se i palestinesi subiscono i loro attacchi”.
Trasportato attraverso il deserto in un cellulare blindato, sottoposto a sbalzi termici estremi, Nivoi e i suoi compagni sono infine giunti in un carcere di massima sicurezza. L’accoglienza è stata una gabbia all’aperto, un “pollaio” dove, uno ad uno, sono stati nuovamente spogliati e rivestiti con una divisa carceraria. Le celle, progettate per sei persone, ne ospitavano fino a venti, costringendo molti a dormire per terra in condizioni igieniche disumane.
La detenzione è stata scandita da un “trantran” di privazione del sonno e terrore psicologico. Ogni due ore, le guardie facevano irruzione con fucili a pompa spianati e cani aizzati contro i prigionieri. Le cure mediche sono state negate, anche a un compagno di cella asmatico di quasi settanta anni e a un altro con problemi cardiaci. L’acqua potabile, un liquido giallastro proveniente da un rubinetto, era l’unica disponibile, mentre i carcerieri ostentavano bottigliette di acqua fresca e cibo per aumentare l’umiliazione.
Il ruolo “scadente” del consolato
In questo inferno, il ruolo delle istituzioni italiane è stato, secondo Nivoi, deludente e sottomesso. “L’operato del consolato italiano è stato scadente”, afferma senza mezzi termini. Descrive un console “completamente succube del governo israeliano”, quasi “paranoico”, più incline a riportare le veline della Farnesina per intimidire che per rassicurare. È stata la console brasiliana, tramite un compagno di cella, a portare la notizia delle grandi mobilitazioni in Italia, un’informazione che ha dato loro forza.
La critica più aspra riguarda la gestione dei fogli di rimpatrio. “Non a tutti è stata data la possibilità di firmare, come se Israele avesse deciso a priori che un certo numero di italiani dovesse rimanere in carcere”, denuncia Nivoi, citando il caso di Pepe, un altro attivista a cui sarebbe stata negata la possibilità di firmare nonostante la sua volontà.
Il messaggio finale di Jesè Nivoi è un appello potente alla solidarietà attiva. La sua esperienza non è una storia di sconfitta, ma un catalizzatore per un impegno ancora più forte. La sua voce, che emerge dal trauma, è un monito a non distogliere lo sguardo, a non lasciare soli i prigionieri e a continuare a lottare per la giustizia in Palestina.