L’occidente, il fallimento delle classi dirigenti, la saldezza morale e politica di chi lotta contro la barbarie – Tre domande a Lorenzo Guadagnucci

Lorenzo Guadagnucci, giornalista, attivista nonviolento

Alberto Deambrogio: Nel tuo recente articolo “I terroristi siamo anche noi”, sollevi la questione dell’assuefazione occidentale di fronte a notizie sconvolgenti come l’uccisione a sangue freddo di persone disarmate. Ritieni che questa apatia sia il risultato di una deliberata manipolazione mediatica che decontestualizza la violenza, oppure riflette un fallimento etico morale intrinseco alla società occidentale contemporanea?

Lorenzo Guadagnucci: Credo che negli ultimi mesi stiamo assistendo a un’accelerazione della storia nella direzione della violenza e della barbarie, con la progressiva demolizione non solo del diritto internazionale ma anche di quei vincoli morali che vengono (forse venivano) esibiti come assi portanti della civiltà democratica occidentale: a Gaza su larga scala, al largo del Venezuela su una scala minore, le “vite degli altri” non valgono niente. A questa accelerazione non sta corrispondendo un’adeguata risposta a livello politico e mediatico. Così come le stragi a Gaza per mesi e mesi sono state minimizzate e relegate a notizia minore (Raffaele Oriani, dimettendosi dal Venerdì, parlò di “scorta mediatica” del genocidio, come poi ha titolato il suo libro), così le violenze dei coloni in Cisgiordania o l’affondamento delle imbarcazioni partite dal Venezuela, ma anche – per citare un’altra vicenda recente – la plateale caccia all’immigrato della polizia speciale di Trump, non sono raccontate e valutate per quello che realmente sono, non suscitano la reazione di sdegno, rifiuto e opposizione attiva che meriterebbero sul piano informativo e su quello istituzionale. Non credo però che si possa parlare di un “fallimento intrinseco della società occidentale contemporanea” perché nel corpo della società – fra gli studenti, i lavoratori sindacalizzati, gli attivisti sociali e politici, anche in alcuni ambienti religiosi – l’accelerazione verso la barbarie è stata colta e combattuta. Dai campus universitari negli Stati Uniti nei primi tempi dell’aggressione a Gaza, fino alle proteste in Europa e poi anche in Italia contro il genocidio, abbiamo molte testimonianze di saldezza morale e politica. Il fallimento, perfino il tradimento, sta avvenendo nelle classi dirigenti, e per classi dirigenti non intendo solo quelle politiche.

A.D.: Nel tuo libro “Un’altra memoria” affronti il paradigma fallito delle guerre, delle stragi e dei genocidi che producono assuefazione, collegando la memoria storica (come Marzabotto) agli eventi attuali a Gaza. In che modi, secondo te, il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di alcune nazioni si inserisce in questa dinamica della memoria e rischia di diventare un gesto puramente simbolico e ipocrita che non incide sulla realtà del conflitto?

L.G.: Il tempo renderà più chiaro il peso e il senso – se peso e senso avranno – di scelte compiute in ogni caso con grande ritardo, come “risposta” alle azioni militari di Israele. I “riconoscimenti” dello stato di Palestina sono stati atti simbolici, non accompagnati da alcuna forte presa di distanza da Israele, che resta per quasi tutti i Paesi europei e occidentali un partner economico, militare, commerciale, diplomatico. Dall’atto simbolico all’atto ipocrita il passo è breve, brevissimo, specie in una situazione nella quale l’ipotesi di uno stato di Palestina è di fatto impraticabile, mancando un territorio nel quale insediarlo, e anzi in una fase in cui la sottrazione di terre alla popolazione palestinese e l’emarginazione dell’Autorità nazionale palestinese in Cisgiordania stanno toccando un picco mai visto. Per essere più credibili, quelle dichiarazioni avrebbero dovuto essere almeno accompagnate da azioni politiche e diplomatiche concrete per frenare l’espansione delle colonie e denunciare le continue violazioni da parte di Israele della legalità internazionale. Se l’Onu è messa fuori gioco, o spinta a “legittimare” un piano Trump così visibilmente sbilanciato, se i pronunciamenti della Corte internazionale di giustizia, della Corte penale internazionale sono disattesi e sbeffeggiati, se la forza – la prepotenza –  militare torna a regolare le relazioni internazionali, chi e come dovrebbe operare per la nascita dello stato di Palestina?


A.D.: Tu parli spesso dell’umanità perduta dell’Occidente davanti alla guerra e dell’ipocrisia che permea certe posizioni. Considerata la tua lunga esperienza come giornalista e attivista per la nonviolenza, quali azioni concrete e immediate, al di là delle condanne verbali o dei riconoscimenti formali, dovrebbero prendere i Paesi occidentali per promuovere una pace giusta e duratura in Medio Oriente, e non solo, senza cadere nell’autoreferenzialità e nell’autoritarismo che hai criticato in passato?

L.G.: Credo che la comunità internazionale, in testa le democrazie europee, che restano la parte dell’occidente meno degradata, dovrebbero per prima cosa agire per garantire protezione alla popolazione palestinese, sottoposta a pratiche di genocidio e di pulizia etnica. Ci sono molti strumenti politici e diplomatici per attuare un’azione del genere: l’isolamento politico, diplomatico e commerciale di Israele; la costruzione di un cessate il fuoco garantito dalle Nazioni Unite con una forte presenza di forze di interposizione sul terreno; l’invio di una missione umanitaria incaricata di ripristinare le condizioni minime di vivibilità nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania; l’apertura di una conferenza di pace e convivenza fra i popoli, e così via. Personalmente non credo all’ipotesi dei due stati, almeno non nei modi e nelle forme prefigurate finora. Credo che si dovrebbe investire in un cambiamento di medio e lungo periodo che passi attraverso il superamento del clima di odio e di rancore che tanti anni di violenze hanno determinato. Credo che la parola dovrebbe essere data alle popolazioni locali, più che alle cancellerie, avviando un percorso di dialogo e di giustizia riparativa, sul modello di quanto fatto a suo tempo in Sudafrica. Credo che andrebbe ricercato e costruito innanzitutto il reciproco riconoscimento fra le comunità, che sono destinate a convivere in quella porzione di territorio (numericamente si equivalgono), e poi che andrebbe immaginata una costruzione sociale e istituzionale di tipo nuovo, il più possibile aperta, decentrata, pluralistica, federalistica. Gli stati tradizionali finora hanno prodotto autoritarismi, esclusione, nazionalismi, e io non credo ai nazionalismi, che sono a mio avviso parte del problema e non della soluzione (ne sappiamo qualcosa in Europa).