Editoriale

L’onda della contestazione sale. Non si torna indietro

C’è un prima e c’è un dopo. Il punto di rottura, il momento in cui la storia accelera, non è sempre prevedibile, ma quando arriva è inequivocabile. Le mobilitazioni popolari esplose contro il genocidio dei palestinesi, contro la logica della guerra e la follia del riarmo, culminate nell’iniziativa eccezionale della Global Sumud Flotilla, rappresentano esattamente questo: un cambio radicale e irreversibile di scenario. In Italia, un movimento di massa di questa portata e con queste caratteristiche non si vedeva da decenni.

Chiunque abbia osservato le piazze di questi giorni ha potuto constatarlo: nulla è più come prima. L’enorme partecipazione ai cortei non è un dato puramente numerico, ma qualitativo. Le strade sono attraversate da una presenza preponderante di giovani e giovanissimi, volti nuovi, persone fino a ieri lontane dalla politica militante. Individui con orientamenti culturali e storie personali diverse marciano fianco a fianco, uniti da un imperativo morale primario: la difesa di un popolo oppresso e massacrato.

Ma questo movimento va oltre la pur sacrosanta solidarietà. In quelle piazze risuona l’eco potente di una domanda antica e sempre nuova: “un altro mondo è possibile”. Si manifesta non solo una critica feroce verso istituzioni nazionali e internazionali inerti, complici silenti di una pulizia etnica, ma si esprime qualcosa di più profondo: l’assoluta e ormai incolmabile distanza tra il popolo e un modello di rappresentanza politica che non rappresenta più nessuno, se non gli interessi che lo alimentano.

È qui, in questa frattura, che si annida un potenziale di cambiamento radicale su cui abbiamo il dovere di investire ogni risorsa politica, intellettuale e morale. La richiesta che sale dal basso è più vasta di quanto sembri. La lotta contro la guerra e il riarmo, infatti, non è una battaglia settoriale, ma il fondamento di una nuova e più ampia lotta sociale e di classe. Non sono affatto disgiunte le manifestazioni di queste ore dalle lotte per un salario giusto, per la difesa della sanità pubblica dal profitto privato, per la salvaguardia della scuola pubblica. Ogni euro speso in armamenti è un euro sottratto alla vita delle persone, alla cura, all’istruzione, al futuro.

Chi, come noi, ambisce a costruire un’alternativa di sistema deve agire ora, con umiltà e determinazione, per saldare questi fronti di lotta. Non esiste pace senza giustizia sociale, e non esiste giustizia sociale in un mondo che si prepara alla guerra.

Le manifestazioni di queste ore e quelle dei prossimi giorni in tutta Italia, passando per lo sciopero generale, devono diventare il nostro campo d’azione. La nostra voglia di alternativa deve essere presente in ogni piazza, in ogni scuola, in ogni fabbrica e in ogni ufficio. Il nostro compito è parlare con le persone, soprattutto con quelle “non politicizzate”, con quelle deluse che non credono più nella farsa in cui hanno gettato rito elettorale in quella logica bipolare, ma che oggi sono al nostro fianco nelle strade. A loro dobbiamo dimostrare, con i fatti, che vale la pena lottare per un cambiamento radicale in ogni aspetto della società, a partire da una classe politica che ha tradito ogni mandato popolare.

Lavoriamo con convinzione, dunque, alla moltiplicazione delle piazze. Lavoriamo per unire le rivendicazioni, mostrando come la riconversione delle spese militari in investimenti sociali sia l’unica, vera politica di sicurezza per il nostro popolo. L’onda sta salendo. Non possiamo permetterci che si ritiri. È il momento di spingerla più in alto.

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