Vincenzo Comito, economista
Premessa
Da qualche mese gran parte dei paesi europei sembrano spaventati dalla pretesa minaccia russa di invasione dell’Europa e stano avviando forsennate e caotiche politiche di riarmo. In realtà pensiamo sia chiaro che non esiste alcuna minaccia russa e che questa corsa al riarmo serve a mascherare l’incapacità delle attuali classi dirigenti dei paesi dell’UE a affrontare la profonda crisi economica dell’area e in particolare la progressiva difficoltà del settore industriale, spina dorsale in particolare di paesi come la Germania e l’Italia. D’altro canto, i progetti di reindustrializzazione varati da un paese come la Francia si stanno dimostrando un fallimento.
La crisi del continente può essere illustrata, oltre che ricordando l’estrema debolezza della presenza di imprese locali nei settori più avanzati, analizzando con qualche dettaglio la situazione di alcuni settori già trainanti della nostra economia quali l’auto, la chimica, la farmaceutica, la robotica.
L’auto
È in atto da tempo una profonda ristrutturazione del settore, che impiega nei paesi della UE circa 15 milioni di addetti. Intanto abbiamo assistito alla dislocazione da Occidente verso Oriente del suo centro di gravità. Oggi i paesi asiatici rappresentano più del 60% della produzione totale di veicoli e la Cina da sola parecchio più di un terzo. Inoltre, il prodotto auto sta subendo enormi trasformazioni, con l’introduzione dei veicoli elettrici e progressivamente anche di quelli autonomi, nonché con un crescente peso della connettività e del software. Le trasformazioni in atto rischiano di mettere fuori gioco l’industria europea del settore, che sembra non riuscire a competere con quella cinese, mentre esse tendono a rendere vane in particolare le prodezze meccaniche dei produttori tedeschi, che su di esse basavano la loro egemonia sul settore. In effetti oggi il peso delle batterie e del software sul costo totale di una vettura è preponderante e quello della meccanica sempre più trascurabile.
Qualche anno fa la Commissione dell’UE, nell’ambito del varo di un programma volto a combattere la crisi climatica, il cosiddetto Green Deal, aveva previsto il divieto di produzione e commercializzazione del motore a combustione interna a partire dal 2035, tappa essenziale per raggiungere l’annullamento delle emissioni inquinanti dell’area nel 2050. Ma di recente il Green Deal è in continuo ridimensionamento sotto la pressione delle lobbies delle grandi imprese dei settori coinvolti, con la complicità di una parte almeno dei politici del continente, con in prima fila i governanti italiani. Così, mentre da più parti si accusa pretestuosamente l’auto elettrica come all’origine di tutti i mali del settore, la Commissione ha di recente anche deciso di annacquare almeno in parte il divieto relativo ai motori termici sopra citato.
Ma il provvedimento del dicembre 2025 non ha soddisfatto pienamente i costruttori per i suoi effetti limitati e per la sua farraginosità. Alcuni dirigenti del settore lo hanno persino giudicato come disastroso. D’altro canto, sotto la spinta di paesi come l’Italia e la Germania e di alcuni costruttori locali, aggrappandosi al motore termico e rallentando così il processo di trasformazione del settore l’UE, invece di accelerare e di incentivare la transizione, consegna l’industria dell’auto alla Cina, compromettendo ancora di più quella del nostro continente che avrà minori stimoli a rinnovarsi, oltre a contribuire a frenare il futuro ambientale del mondo e del nostro continente. Bell’impresa!
Chimica, farmaceutica, robotica
Per quanto riguarda il settore chimico, ricordiamo intanto che esso è stato a suo tempo “inventato” nei paesi europei e che le imprese del nostro continente sono state sino a tempi recenti tra le protagoniste del settore. Ma il settore è un grande consumatore di energia e la decisione della Ue di fare a meno del gas russo ha avuto come conseguenza che tali costi sono fortemente aumentati e tendono a rendere ormai quasi impossibile di continuare a produrre nel nostro continente. Si aggiunga la crescente concorrenza cinese, che tra l’altro tende ormai a rappresentare circa il 50% della produzione e del mercato mondiale, nonché i dazi di Trump. Così le imprese chiudono gli impianti e riducono l’occupazione, mentre aumentano invece i loro investimenti in Cina e negli Stati Uniti. Secondo una fonte (Ineos) nel periodo 2022-2027 stiamo assistendo in Europa alla chiusura di 90 impianti chimici.
Non molto migliore appare il quadro per quanto riguarda il settore farmaceutico. Tradizionalmente i paesi europei vi avevano ed hanno ancora in parte una presenza forte.
Ma già a partire dai primi anni del nuovo secolo l’attività in Europa ha cominciato a perdere colpi per la concorrenza asiatica sui farmaci generici e sui principi attivi. Così, oggi l’80% dei principi attivi consumati nel continente vengono dalla Cina o dall’India. Restava il lucrativo mercato dei prodotti innovativi. Ma mentre la Cina sta cominciando ad avanzare anche in questo campo, la politica di Trump tende ora a dare un ulteriore colpo molto duro alle imprese europee. Il presidente Usa, minacciando di imporre alti diritti di dogana, sta spingendo la imprese europee a localizzare negli Stati Uniti una parte consistente dei loro investimenti. Ricordiamo che quello Usa è il mercato più grande, con circa il 50% del totale mondiale, ma anche il più redditivo visti gli alti prezzi dei farmaci in loco.
Per quanto riguarda infine la robotica ci troviamo di fronte ad un altro e non meno grave problema. I produttori europei vi erano sino a non moltissimi anni fa all’avanguardia. Ma negli ultimi tempi le principali imprese operanti nei paesi dell’UE sono state acquisite da società extra-europee. Così la tedesca Kuka è finita sotto il controllo cinese, la svizzera-svedese ABB sotto quello giapponese, mentre l’italiana Comau è stata comprata dagli americani. Un’equa ripartizione delle spoglie.
Dietro questi mutamenti ci sono le difficoltà finanziarie delle singole imprese e la loro difficoltà a combattere con quelle degli altri paesi, ma anche, se non soprattutto, la mancanza di una visione adeguata e di una politica industriale conseguente da parte dei politici del nostro continente.
Conclusioni
Stiamo assistendo ad una crisi senza precedenti dell’industria dei paesi europei. Le nostre classi dirigenti non sembrano sapere cosa fare in proposito. Così, da una parte cercano di nascondere i problemi con un linguaggio e delle azioni belliciste, inventandosi un nemico, dall’altra sono tentate di annacquare le norme ambientali e di avanzare delle politiche protezionistiche, tutte cose che tendono semmai ad aggravare nel lungo termine i problemi di un continente che appare sostanzialmente allo sbando.