Tratto da un articolo di Paolo Carta per unionesarda.it
Una sentenza non può restituire un figlio a una madre o un marito a una moglie. Non può cancellare anni di sofferenze, di battaglie contro un male invisibile contratto servendo lo Stato o, peggio, semplicemente pascolando il proprio gregge vicino a una base militare. La recente decisione dell’Assemblea Plenaria del Consiglio di Stato, però, fa qualcosa che per decenni è sembrato impossibile: squarcia il velo del silenzio e impone una pagina di verità.
Per anni, la narrazione ufficiale è stata quella del dubbio. Per anni, l’onere insopportabile della prova è stato scaricato sulle spalle dei malati o dei familiari dei defunti. Si chiedeva loro di dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, il nesso tra le leucemie, i tumori e quelle “polveri della guerra”, quelle nanoparticelle di metalli pesanti respirate nei Balcani o nei poligoni sardi di Quirra e Teulada. Era una richiesta crudele, una battaglia impari contro un muro di gomma ministeriale.
Ora quel muro è crollato. La sentenza è storica perché inverte un paradigma : non sarai più tu, vittima, a dover dimostrare la colpa; sarà lo Stato, il Ministero della Difesa, a dover dimostrare l’assenza di un nesso tra la tua malattia e il servizio prestato.
Questa decisione, sebbene tecnicamente giuridica, è profondamente politica e morale. È un atto d’accusa verso decenni di omissioni. Rivela ciò che molti sapevano e denunciavano: lo Stato sapeva. Come emerge dalle stesse carte processuali, la NATO già negli anni ’90 aveva avvisato lo Stato Maggiore italiano sui rischi dell’uranio impoverito, suggerendo protezioni adeguate. Quelle parole, come confermano i giudici, furono ignorate.
I soldati sono stati mandati in zone contaminate senza essere informati, senza essere tutelati, come denunciato dal Colonnello Carlo Calcagni. E per i civili sardi, la situazione è, se possibile, ancora più amara. Un decreto del Presidente della Repubblica equipara di fatto le aree attorno ai poligoni inquinati ai teatri di guerra. Chi viveva e lavorava lì è stato trattato come un danno collaterale accettabile.
È vergognoso che, per ottenere questo principio di giustizia, ci si sia dovuti appellare alla magistratura, che si è di fatto sostituita a un legislatore dormiente. Le proposte di legge per l’inversione dell’onere della prova, avanzate già nel 2016 al termine della commissione parlamentare d’inchiesta, giacciono ancora chiuse in un cassetto.
Questa sentenza, sebbene giunta dopo troppe morti e troppi silenzi, apre la strada ai risarcimenti. Ma il suo valore va oltre l’aspetto economico. È un riconoscimento del sacrificio di chi è morto per “aver fatto il proprio dovere” e della tragedia di chi si è ammalato solo per essere nato nel posto sbagliato, vicino a un poligono.
Ora, come auspica l’Osservatorio militare, serve una legge immediata. Non è più tollerabile che le vedove o i malati debbano ancora affrontare i tribunali per ottenere un risarcimento “sacrosanto”. Lo Stato ha perso l’ultima scusa: ora deve pagare, non solo economicamente, ma assumendosi la piena responsabilità della verità che ha tentato, troppo a lungo, di nascondere.
 
					