Francesco Pallante, docente di Diritto Costituzionale, Università di Torino
Roberto Cabrino: Professor Pallante, lei in un recente articolo ha parlato dei testi delle preintese regionali in vista dell’Autonomia differenziata come di testi fotocopia in barba alle prescrizioni della Corte Costituzionale. Ci può dire quale peso hanno queste preintese e cosa riescono a determinare nel percorso riaperto verso l’AD?
Francesco Pallante: Secondo quanto previsto dalla Costituzione (art. 116, co. 3), per ottenere «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», rispetto a quelle di cui già sono titolari, le regioni ordinarie devono promuovere una trattativa con lo Stato volta a stipulare un’intesa: un accordo, cioè, in cui lo Stato (tramite il Governo) e la regione (tramite la Giunta regionale) definiscono quali funzioni passeranno dall’uno all’altra. Una volta siglata l’intesa, questa deve poi essere recepita dal Parlamento in una legge da approvarsi a maggioranza assoluta (vale a dire, con il voto favorevole della metà più uno dei componenti di ciascuna Camera, mentre solitamente le leggi si approvano con la più agevole maggioranza semplice, che equivale alla metà più uno dei presenti in aula al momento del voto). Le preintese non sono dunque previste dalla Costituzione. Ciò non ne vieta l’utilizzo (spesso le procedure costituzionali sono integrate in via di prassi), ma esclude che siano atti dotati di valore giuridico. Di fatto, parliamo di atti dotati di valore politico: sono la messa per iscritto dell’impegno a trattare su determinati punti di merito, in vista del raggiungimento e della stipulazione dell’intesa. È dunque anche possibile che l’impegno non sia mantenuto o che ne siano almeno in parte cambiati i contenuti. Questo non significa, in ogni caso, che le preintese siano da sottovalutare: la loro impostazione mostra l’inequivocabile volontà del Governo di proseguire sulla strada sbarrata dalla Corte costituzionale, ignorando che il problema dell’Italia è la già eccessiva differenziazione tra i suoi territori e operando per ulteriormente acuirla.
R.C.: Negli accordi con le Regioni fatto nel tour di Calderoli spicca il punto che riguarda la sanità: gestione autonoma delle risorse, sino alla possibilità di istituire fondi integrativi. Come giudica questo passaggio, anche rispetto alla evidente spinta verso la privatizzazione, la finanziarizzazione, il ruolo dei grandi fondi?
F.P.: Sulla sanità si sta giocando una partita decisiva. Quello della salute è un mercato immenso, in cui gli operatori economici privati sono entrati, anche in profondità, ma rimanendo sinora sempre relegati in un ruolo ancillare rispetto al servizio pubblico. La “prima gamba” rimane pur sempre quella pubblica, anche se ciò non ha impedito che si venisse a creare una situazione in cui, fra privati puri e privati convenzionati, circa la metà della spesa totale per la salute (dunque, la spesa pubblica più la spesa privata) vada oramai agli operatori privati: è tantissimo, specie in un sistema, come il nostro, che dovrebbe essere universalistico e finanziato tramite la fiscalità generale; ma rimane pur sempre l’altra metà, e si sa che gli appetiti degli operatori privati sono insaziabili. Ora a fiutare l’occasione sono le assicurazioni private, che spingono per sopperire ciò che la sanità pubblica, sottofinanziata da scelte politiche scellerate, stenta sempre più a garantire (basti pensare alla recente decisione lombarda di stipulare convenzioni con cui smaltire le liste d’attesa negli ospedali). Non a caso, tra le nuove competenze regionali, secondo quanto previsto dalle preintese, figurano il potere di gestire in autonomia le risorse attribuite alle regioni, facendo così venir meno i vincoli che oggi impongono l’uniformità nella destinazione delle risorse assegnate dallo Stato alle regioni, e la facoltà di stabilire il sistema di rimborso e remunerazione delle prestazioni sanitarie erogate nella regione dagli operatori pubblici e privati, nonché di decidere la compartecipazione alla spesa da parte degli assistiti (i c.d. ticket).
R.C.: Al di là della questione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, per cui è in corso una battaglia al fine di escluderli dal calderone della finanziaria di fine anno, quali sono secondo lei i punti nodali che tutti i soggetti contrari all’AD dovrebbero riprendere per contrastare al meglio questa sciagurata riforma? A quali altre battaglie sarebbe utile connettere quella contro l’AD per renderla più efficace?
F.P.: L’autonomia differenziata è la forma estrema assunta dalle politiche di egoismo territoriale di cui già fu espressione la riforma del Titolo V della Costituzione operata dall’Ulivo nel 2001. Se si vuole realmente stroncare i propositi di differenziazione, ciò che occorre fare, a mio parere, è rimettere in discussione le basi ideali su cui poggia l’AD, e cioè: l’idea che l’uguaglianza non sia più un valore e l’idea che regionale sia di per sé meglio di statale. Al contrario, occorre tornare a porre al centro della cultura politica condivisa l’idea che le istituzioni sono strumenti posti al servizio dell’obiettivo costituzionale fondamentale: creare le condizioni perché tutti gli esseri umani, ovunque viventi in Italia, possano pienamente sviluppare la propria personalità e effettivamente prendere parte alla vita collettiva (art. 3, co. 2, Cost.).